Che Stephen King sia un mostro sacro della letteratura di genere contemporanea, sembra ovvio anche per i suoi detrattori . Quanti non lo amano devono comunque riconoscergli qualità di narratore raramente riscontrabili nella letteratura di consumo. King usa consapevolmente i meccanismi della narrativa popolare, dissemina citazioni dotte in affreschi della provincia americana, e nonostante le pagine abbiano momenti truculenti, pure sono sempre moderati da un senso di profonda malinconia, di rimpianto per gli anni della giovinezza e per un’America di provincia che forse oggi non esiste più. I personaggi poi sono ben caratterizzati e i lettori trepidano per la loro sorte anche quando gli eventi di per sé sarebbero prevedibili. Queste caratteristiche hanno trasformato i bestseller in veri classici, amati da lettori diversi per età e formazione culturale, e le trasposizioni cinematografiche non si sono fatte attendere.
Portare King sullo schermo è però un’impresa più difficile di quanto non sembri. I romanzi sono ricchi di particolari e di digressioni che sembrerebbero pagine superflue, eppure contribuiscono a creare la giusta atmosfera e motivare i comportamenti dei personaggi. Le sceneggiature sono costrette a trovare un difficile compromesso tra sintesi e fedeltà al testo, e gli esiti sono imprevedibili. Accanto a pellicole memorabili come Shining di Stanley Kubrick o Carrie di Brian de Palma, più spesso nascono film tanto decorosi quanto poco memorabili.
Tommyknockers – Le creature del buio (il titolo deriva da una vecchia filastrocca per bambini) è diventato una miniserie televisiva in due puntate dirette nel 1993 da John Power. In 181 minuti vengono narrate le vicende della cittadina di Haven, un tranquillo paesino dove accade quanto più o meno può accadere in una qualsiasi cittadina di provincia. C’è il postino che fa le corna alla moglie poliziotta, ci sono famiglie con bambini e nonni, c’è l’emporio gestito da un’anziana signora, ci sono i pettegolezzi e c’è Roberta “Bobbi” Anderson, una scrittrice specializzata in western. Proprio lei passeggiando col cane un giorno trova nel suo terreno un manufatto sepolto. Inizia a scavare ed emerge una bizzarra struttura aliena. Da essa si sprigiona una sostanza volatile, e poco a poco tutti i cittadini scoprono di avere facoltà paranormali, oppure si improvvisano inventori e costruiscono bizzarre macchine. Sembrerebbe un miracolo, tuttavia la gente cambia, e poco a poco perde la capacità di provare emozioni umane. L’unico a non trasformarsi è Jim “Gard” Gardner, poeta amante di Bobbi e della bottiglia. L’uomo ha una placca di metallo inseritagli nel cranio in seguito ad un incidente, e sembra immune agli effetti del gas. Tocca a lui salvare l’umanità…
La vicenda non è particolarmente originale, sembra ispirarsi al racconto Il colore venuto dallo spazio (The Colour Out of Space) di H.P.Lovecraft (come ammesso da King nella sua autobiografia letteraria, On Writing) e al celebre Invasione degli ultracorpi. Quando nel 1987 venne edito il romanzo, l’arrivo degli alieni era ormai stato raccontato in decine di modi diversi e nonostante tutto i lettori gradirono la rivisitazione. Il successo era dovuto alla caratterizzazione di tutti i personaggi e dell’ambiente della piccola cittadina, King dava spazio a quelle caratterizzazioni e a quell’introspezione che spesso mancava ai racconti di genere.
Sullo schermo purtroppo le cose vanno diversamente, mancano i tempi necessari a dare spessore ai protagonisti e i personaggi secondari si trasformano in macchiette: la vecchietta svanita, l’impiegata delle poste ninfomane, il marito fedifrago, la moglie ingenua e poi vendicativa, la poliziotta vedova, il suo collega spasimante, il bambino in cerca di facile protagonismo…
La sceneggiatura di Lawrence D. Cohen è costretta a comprimere in tre ore un testo che ne avrebbe richieste almeno due in più, necessarie per mostrare con la dovuta lentezza l’effetto della mutazione e giungere al finale con i dovuti tempi. Il montaggio piano, tipico delle produzioni televisive, è inizialmente efficace in quanto dà tempo allo spettatore per entrare nel microcosmo di Haven. Non appena i poteri iniziano a manifestarsi, purtroppo si enfatizzano impietosamente tutti i limiti della pellicola. Gli effetti speciali sono rozzi anche per le possibilità dei primi anni Novanta e così ogni prodigio si risolve in una luce verde che male si fonde con la fotografia dimessa, degna di un tipico film dossier di quegli anni. Un montaggio più rapido, e un’alternanza di piani nelle inquadrature avrebbero in molte situazioni permesso di minimizzare la povertà dei trucchi, lasciando immaginare quanto, per i costi o per la censura televisiva, non poteva venire degnamente rappresentato. Inoltre pellicola accusa i tempi morti imposti dall’esigenza di inserire pause pubblicitarie, rivelando irrimediabilmente la sua natura di prodotto televisivo.
La combinazione di ingrate sintesi, di scarsa inventiva nell’uso della macchina da presa e di inopportuni rallentamenti del ritmo narrativo nuoce alla miniserie più della povertà degli effetti speciali, o dell’assenza di attori di grande richiamo. Gli interpreti sono caratteristi con esperienza di ruoli televisivi, e se la caverebbero decorosamente se solo fosse stato assegnato loro un copione meno banale. Tutti sono costretti a pronunciare battute funzionali al procedere della vicenda invece di ‘perdere tempo’ con dialoghi ben selezionati per evidenziare gli effetti della mutazione sulla psiche. Dialoghi studiati con maggiore attenzione avrebbero esaltato il senso del mistero, la graduale trasformazione, il dramma vissuto da Gardener. E’ ovvio che Tommyknockers Le creature del buio è soprattutto un horror fantascientifico, basato sulla rappresentazione di fatti che si susseguono e quindi l’azione deve avere il giusto rilievo, però gli eventi improbabili risultano credibili solamente quando si crea l’empatia con i protagonisti e con i personaggi che li circondano. Nelle pagine l’introspezione facilita i meccanismi di identificazione dei lettori, sullo schermo viene a mancare, e con essa la credibilità. Ovviamente per poter dare spazio all’introspezione senza sacrificare l’intreccio di genere occorrevano tempi più estesi, oppure il coraggio di distaccarsi dalle pagine, magari scatenando i commenti acidi dei fan kinghiani più irriducibili. Dispiace la mancanza di coraggio in tale senso, per una miniserie che tutto sommato si lascia guardare ma regala poche emozioni.
Titolo originale: The Tommyknockers
Regia: John Power
Anno: USA 1993 – durata 125 min.
Sceneggiatura: Lawrence D. Cohen
Cast: Joanna Cassidy, Jimmy Smits, Marg Helgenberger, John Ashton
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