“Non capisco neanche più se esistiamo davvero, o se siamo noi i fantasmi...”.
Le miniserie TV degli anni Settanta si trovavano a dover conciliare le ambizioni educative tipiche della televisione del decennio precedente con le esigenze di intrattenere una platea divenuta poco a poco meno ingenua. Sembravano lontani i tempi in cui Alberto Manzi insegnava a leggere e scrivere ai molti analfabeti nella trasmissione ‘Non è mai troppo tardi’, e la progressiva diffusione del cinematografo anche nei centri urbani più piccoli aveva fatto invecchiare irrimediabilmente il vecchio modo di fare fiction. Il confronto con il linguaggio del cinema aveva reso sempre più difficile proporre trasposizioni filmate in interni di studio allestiti con buona volontà, con scene quasi fisse e sequenze montate in modo minimale. Era giunto il momento di prendere spunto dal grande schermo e attualizzare le miniserie, sperimentando nuovi generi e contaminandoli. Già dalla metà degli anni Sessanta c’erano stati tentativi in tale senso, soprattutto a livello di contenuti in quanto permanevano limiti tecnici tali da limitare le innovazioni. Era iniziata la stagione degli sceneggiati del mistero e della fantascienza, destinata a segnare l’immaginario di un’intera generazione di telespettatori. Gli intrecci erano tratti da testi famosi del genere, oppure erano basati su un’idea ‘fantastica’ inserita in un contesto spionistico, drammatico, poliziesco oppure sentimentale.
Nel 1972 la fortuna de Il Segno del Comando e di A come Andromeda spianarono la strada a molte altre produzioni di argomento fantastico o fantascientifico.
Il Fauno di marmo è la rivisitazione in tre puntate da un’ora circa ciascuna dell’omonimo romanzo di Nathaniel Hawthorne (The Marble Faun), realizzata da Silverio Blasi nel 1977 e già stato portato al cinema nel 1920 dal regista italiano Mario Bonnard. Il testo originale, scritto nel 1860 con uno stile assai lontano dai gusti letterari attuali, è stato pesantemente riadattato in modo da consentire un’ambientazione contemporanea. Nella Roma degli anni Settanta, Kenyon (Orso Maria Guerrini), uno scultore americano, cerca di tradurre un misterioso diario ottocentesco. Le pagine poco a poco ricostruiscono le vicende di quattro amici, e in essi si rispecchiano Keynon, la giovane ed ingenua artista americana Hilda, la misteriosa pittrice Miriam, e il giovane Donatello. Questi ha un carattere sereno e spensierato, ed assomiglia alla statua del Fauno in riposo di Prassitele: è il primo accenno al tema della reincarnazione, tema che diverrà dominante nello svolgimento dei fatti. La figura di un uomo ammantato di nero appare a Miriam nel corso della visita alle catacombe e comincia a perseguitarla. Tra sogni ricorrenti e presenze reali, gli amici si trovano a fare i conti con Il Persecutore, una minaccia che viene dal passato.
Spoiler!
Lo sceneggiato è debitore per molti versi de Il Segno del Comando e dell’Amaro caso della Baronessa di Carini: ci sono presagi e maledizioni cicliche che gravano sui protagonisti, fantasmi che si aggirano tra i monumenti di una Città Eterna mai così silenziosa e disabitata, una spruzzata di dottrine esoteriche e mesmerismo. Anche la colonna sonora cantata da Lando Fiorini ammicca alle Cento Campane e alla ballata della Baronessa. Il Fauno di marmo si distingue invece per l’uso del colore, abbandonando il fascinoso bianco e nero dei predecessori.
C’è un testo impegnativo alle spalle del soggetto, un regista esperto (suoi sono il Caravaggio, Vita di Michelangelo, Piccolo mondo antico, solo per ricordarne alcuni), e attori affermati dalla solida carriera teatrale. Nelle intenzioni degli autori, Il Fauno di marmo doveva rinverdire i fasti della fiction-mistery, facendo leva su due filoni ben esplorati dagli sceneggiati del periodo, la trasposizione del romanzo d’autore e il thriller fantastico.
Tuttavia il risultato, sebbene gradevole, è più modesto delle aspettative.
La sceneggiatura firmata da Massimo Franciosa ‘Rugantino’ e da Luisa Montagnana alterna momenti felici a passaggi meno convincenti, sminuiti da dialoghi discontinui nel registro espressivo. Le visioni del passato si alternano agli eventi del presente; nelle parti d’epoca il fraseggio è altisonante e lontano dal modo di parlare di oggi. Può apparire stentoreo, ed enfatizza il senso di estraniamento dovuto alle differenze culturali che ci dividono da un’epoca lontana. Quando gli eventi accadono nel presente, lo stesso tono risulta fastidioso. A peggiorare l’effetto, i personaggi si esprimono correntemente quando le battute devono spiegare gli eventi sovrannaturali. Esplicato quanto sta avvenendo, i copioni introducono brevi stralci di dialogo altisonante, quasi fossero pezzi di bravura da far recitare su un palcoscenico. Se l’intento fosse stato quello di calare lo spettatore in un incubo generato dalla suggestione collettiva dei quattro amici, forse sarebbe stato preferibile eliminare ogni spiegazione troppo esplicita e lasciare solamente il registro ottocentesco, in modo da sottolineare la continuità con il passato. Probabilmente gli sceneggiatori hanno scelto diversamente per facilitare la comprensione da parte del largo pubblico, ma gli esiti sono discutibili.
La credibilità faticosamente conquistata traballa, nonostante l’abilità recitativa di Orso Maria Guerrini e di Marina Malfatti. Gli altri due coprotagonisti hanno meno risalto, e non basta il nudo integrale di Consuelo Ferrara immortalata nella doccia per risollevare il morale. La scena adamitica è del tutto superflua, e il bel faccione imbambolato di Donato Placido (fratello del più celebre Michele) ha meno espressività della statua a cui vorrebbe assomigliare.
Il ritmo narrativo è lento, almeno per gli standard della televisione di oggi, e non è necessariamente un difetto. Per creare la giusta atmosfera in una vicenda onirica e cupa, occorre costruire lentamente un clima claustrofobico. Si poteva narrare la stessa vicenda nel tempo di un film, sacrificando però l’attesa dell’evento cruciale, riducendo le sequenze dei delitti a pochi attimi grandguignoleschi o a momenti degni di un telefilm de La signora in giallo. Le sequenze più riuscite sono proprio quelle in cui uno stiletto cade e trafigge la mano dello scultore, e le apparizioni del Persecutore, le sue morti.
A proposito del misterioso uomo in nero, lo si descrive come vestito di abiti settecenteschi. In realtà vediamo solo un uomo col tabarro; potrebbe essere un dettaglio di poco conto, invece confonde le idee. Un ipotetico stalker potrebbe portarsi dietro un mantello, accertarsi di essere solo con la vittima, indossarlo e minacciarla, per poi riporlo e andarsene inosservato. Fosse vestito davvero come un uomo di tre secoli fa, avrebbe capi davvero insoliti e non potrebbe apparire dal nulla: eventuali passanti lo noterebbero. Gli spettatori possono, almeno per una buona metà della vicenda, credere in un Persecutore in carne ed ossa, venuto per vendicarsi di qualche torto tutto terreno. D’altra parte gli sceneggiati fantastici italiani (come quelli francesi del resto) spesso hanno proposto vicende solo apparentemente ultraterrene: il Belfagor è una persona travestita, nel Segno del comando dietro agli incubi byroniani del professor Forster c’è un intrigo spionistico, e il protagonista dell’Amaro caso della Baronessa di Carini è mosso da interessi personali. Se resta qualche dubbio, è quasi un contentino aggiunto per accattivarsi le simpatie degli spettatori che invece al sovrannaturale ci credono o vorrebbero crederci. Ne II fauno di marmo gli indizi si accumulano lentamente, con il procedere della traduzione del diario. Si perdoni l’ingenuità di far trovare le pagine staccate, perse in qualche ignota biblioteca, e comunque in ordine cronologico: il manoscritto è lo strumento di un destino prefissato e difficile da accettare. Le rivelazioni più sconcertanti giungono nella terza ed ultima puntata, e suonano un po’ troppo esplicite.
Spoiler!
Nonostante le ingenuità e l’amarezza di fondo, lo sceneggiato è godibile, a patto di fare lo sforzo di viaggiare a ritroso nel tempo, verso un modo di fare televisione che purtroppo o per fortuna non esiste più.
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