Prince of Persia – le sabbie del tempo è un famoso videogioco, creata da Jordan Mechner nel 1989 e divenuto un piccolo classico. Al fortunato titolo si ispira l’omonima pellicola diretta da Mike Newell per la Walt Disney Pictures nel 2010. L’intenzione era quella di trasporre il celebre eroe sul grande schermo seguendo lo stile della saga de I Pirati dei Caraibi, fatto di imprese eroiche presentate con chiassosa ironia, una trama ricca d’azione, molti combattimenti vivaci ed effetti speciali all’avanguardia. Jack Sparrow e la sua ciurma funzionano grazie a questi ingredienti, valorizzati dall’interpretazione di Johnny Depp.
Perché No
La produzione di Prince of Persia sperava di rinnovare il successo del pirata riproponendo la stessa ricetta collaudata, ma l’ingrediente fondamentale stavolta è assai diverso: Dustan nasce come eroe da videogioco. E’ stato creato per essere controllato dal giocatore, che attraverso l’interfaccia di un personal computer o di una consolle mette alla prova i suoi riflessi in prima persona. Il cinema non può (ancora) offrire tanta interazione con lo spettatore, e come se non bastasse, la sceneggiatura riprende tutti gli elementi più appariscenti del videogame, senza azzardare troppe variazioni o sfruttare il personaggio amato dal pubblico per dare vita a nuove avventure.
Le vicissitudini del nostro eroe ruotano attorno ad un pugnale sacro, capace di far tornare indietro il tempo grazie alla sabbia magica contenuta nell’impugnatura. L’oggetto fa gola al cattivo di turno, che vuole cambiare il passato e diventare re, proprio come ci ha raccontato il videogioco.
I poteri del pugnale sono ben noti ai fan della saga, e vengono svelati quasi subito. Il principe ed i suoi avversari sono condannati dal copione a riprodurre azioni già viste. Lo spettatore rischia di ritrovarsi nelle condizioni di chi sta a guardare un amico che gioca: può parteggiare per lui e godersi le immagini spettacolari che si susseguono sul monitor, ma avere in mano i comandi della consolle è ben altro divertimento.
Sulla sceneggiatura grava anche il codice etico puritano adottato dalle produzioni Disney, destinate a sfornare film per giovanissimi. Le trasposizioni, i live action e i sequel spesso sono dei remake o dei reboot; i titoli più riusciti di solito calcano la mano esagerando gli aspetti più vistosi dell’originale. Esasperano il sesso e la violenza, i particolari truci, oppure reinterpretano i personaggi donando loro maggiore introspezione. Le recenti pellicole dedicate a James Bond e a Sherlock Holmes in questo senso hanno offerto una grande lezione, hanno reso i personaggi meno invulnerabili nelle scene d’azione e hanno dato spazio ai sentimenti, anche quelli meno nobili eppure umanissimi. Trattandosi di un film Disney, questa necessaria operazione non avviene; si vede ben poco sangue, addirittura la fine eroica di un guerriero nubiano resta elusa tra una sequenza e l’altra, i baci sono castissimi e i protagonisti sono fin troppo vestiti. Si può obiettare che donnine spogliate e scene splatter sono espedienti di cattivo gusto. La constatazione potrebbe essere fondata se la trasposizione offrisse temi alternativi su cui dirottare l’interesse… argomenti che il film tralascia. Affezionarsi al trovatello dall’animo nobile può risultare difficile, e non è solamente colpa di Jake Gyllenhaal, delle sue capacità atletiche o della faccia da pesce lesso che sfoggia quando non è sostituito da stuntman. Manca della grazia del compianto Bruce Lee e della professionalità di Douglas Fairbanks Jr., attori che hanno basato la propria carriera su ruoli assai fisici.
Gemma Artenton (Byzantium) purtroppo appare impacciata, e il personaggio della principessa custode del sacro pugnale si esaurisce in qualche goffo scontro all’arma bianca e in uno scambio di battute prevedibili. I battibecchi tra i due protagonisti sono scontati e la loro storia amorosa sa di già visto. A voler essere crudeli, le apparizioni della donzella ricordano gli spot di una nota marca di gelati, complice la viratura delle immagini color caramello. I personaggi secondari sono invece ben caratterizzati e caricaturali quanto ci si può attendere in un fantasy che non si prende troppo sul serio.
Il povero protagonista vive in un mondo da Mille e una Notte rivisitato con toni fantasy, privato di qualsiasi verosimiglianza storica. Accanto ad architetture ed oggetti tipici del mondo islamico colto nell’apice del suo splendore c’è un vuoto difficilmente colmabile, fatto di stereotipi e luoghi comuni. Gli dei guidano il destino dei mortali, e sono divinità degne di un’operetta o di un pastiche barocco. Pur di non offendere la sensibilità delle varie etnie, queste povere divinità restano fuori scena, quasi fossero accessori destinati a innescare le peripezie dei protagonisti, al pari del pugnale magico che fa tornare indietro il tempo. L’accostamento tra dervisci ed assassini risulta piuttosto improbabile per quanti conoscono la corrente mistica dell’Islam Sufi, basata sul distacco dalle cose del mondo (compresa la stretta osservanza della legge coranica) e finalizzata al raggiungimento della gioia del saggio, presente su questa terra eppure libero dalle catene della materia. Le pratiche ascetiche dei monaci vengono confuse con la follia indotta dalla droga della setta degli Assassini di Alamut, e l’unica consolazione è pensare alla superficialità con cui la pellicola tratta una cultura tanto lontana.
Le semplificazioni funzionano bene in un videogioco, prodotto multimediale che basa il suo successo sul piacere ludico, sulle splendide animazioni accompagnate da una colonna sonora avvolgente. Al cinema le ingenuità si palesano a volte in modo doloroso; le parti più riuscite di Prince of Persia sono così quelle riservate ai personaggi secondari, ruoli ironici che un videogioco deve spesso lasciare in disparte.
Perché Sì
Cupole e minareti, tende e scimitarre, dei e dervisci, assassini e incantesimi, armi esotiche e paesaggi da sogno, c’è tutto l’occorrente per far sognare lo spettatore disposto a mettere da parte la Storia pur di mettersi alla ricerca di un paio d’ore di onesta evasione. Questo offre il film, dichiaratamente trash, simile per tanti versi agli ingenui film in costume degli anni Cinquanta ambientati a Baghdad e dintorni. Il paragone non è necessariamente negativo, perché film come Il Ladro di Baghdad (1940) si sono conquistati un posto nella Storia del Cinema, hanno influenzato l’immaginario collettivo, hanno consacrato la Settima Arte al ruolo di ‘macchina dei sogni’.
Per i fan del videogioco, è un live action realizzato con mezzi faraonici, interpretato da professionisti e finalizzato all’intrattenimento più sincero. Qualche irriducibile appassionato forse può preferire pellicole amatoriali, realizzate da altri fan armati di passione e buona volontà, senza fine di lucro. Entrambe le posizioni hanno una buona parte di ragione, perché se è vero che realizzazioni inadeguate strappano sorrisi involontari e battute feroci, è altrettanto vero che nessun prodigio tecnologico sopperisce all’entusiasmo degli sgangherati fan movie. La produzione ha cercato un compromesso, trasponendo Dustan e il suo mondo nel modo più fedele possibile alla versione digitale, e facendolo interpretare a un volto abbastanza nuovo.
Le coreografie e i costumi sono inverosimili? Critiche infondate, poiché si tratta di un fantasy che inscena un passato alternativo, fa leva su stereotipi collaudati, si permette licenze d’ogni genere e non pretende di insegnare la storia del vicino Oriente. Il Medio Oriente di Dustan è un luogo immaginario, un altrove creato per intrattenere e suscitare meraviglia. Nei titoli di coda la lista degli artisti digitali supera quella delle controfigure, e il risultato è quello di avere una pellicola visivamente paragonabile alle magnifiche animazioni del videogame.
L’esigenza di fedeltà agli eroi fatti di pixel regna sovrana come è giusto, fa addirittura perdonare i combattimenti inverosimili, le sequenze di pochi secondi ritoccate da mani esperte e affastellate dal montaggio fin troppo serrato con lo scopo di stupire e mascherare le imperizie marziali degli attori. In questa prospettiva i personaggi sono azzeccati in quanto lottano tra salti e piroette degni di un ballerino. Ogni sequenza è spettacolare, le ricostruzioni sono prodigi della grafica digitale che trasforma sequenze riprese in set esotici oppure in studio, il sense of wonder decolla.
Accettato che è una pellicola spettacolare e priva di pretese, lo spettatore è finalmente libero di godersi le avventure del piccolo ladro cresciuto alla corte del Re.
La sceneggiatura è semplice e lineare, come si conviene ad un videogioco, e anche i preadolescenti riescono a seguire i brevi spostamenti a ritroso nel tempo. Si può divertire il giocatore, che riabbraccia il suo eroe in carne ed ossa, e si può divertire l’appassionato di fantasy, che scopre un mondo alternativo alle solite foreste infestate da elfi e draghi. C’è anche qualche eco d’attualità: Alamut viene attaccata senza preavviso, con la scusa di voler fermare la produzione di armi destinate ai nemici del Regno.
Gode anche l’orecchio, gratificato da una bella colonna sonora che ammicca all’etnica ambient.
E si ride, con battute semplici e dirette, adatte anche ai piccoli. L’Arte è tutta un’altra cosa, questo è un film realizzato per intrattenere spettatori di ogni età, meglio se armati di popcorn e bibite.
Titolo: Prince of Persia: The Sands of Time
Regia: Mike Newell
Anno: 2010
Produzione: USA – Jerry Bruckheimer Films, Walt Disney Pictures – durata 116 minuti
Sceneggiatura: Jordan Mechner, Carlo Bernard, Doug Miro, Boaz Yakin
Fotografia: John Seale
Musiche: Harry Gregson-Williams
Effetti speciali: Trevor Neighbour, Jalila Otky, Trevor Wood
Interpreti: Jake Gyllenhaal, Ben Kingsley, Gemma Arterton, Alfred Molina, Steve Toussaint
Trailer