Celadon e Astrea sono due pastori della Gallia del V secolo dopo Cristo. Si amano ma le rispettive famiglie ostacolano la relazione. Durante una festa per un equivoco la gelosa Astrea allontana Celadon che cade nella più cupa disperazione. Il bel pastore si getta nel fiume e viene salvato da alcune Ninfe; affidato alle cure di un Druido, viene convinto a travestirsi da fanciulla pur di rivedere la dolce Astrea…
A ritroso
Immaginatevi di viaggiare all’indietro nel tempo e di trovarvi in uno splendido giardino abbellito da fontane con giochi d’acqua, piante rare, radure, e grotte con statue bizzarre. Davanti ai vostri occhi giovani attraenti mettono in scena un dramma amoroso, recitano versi interpretando i ruoli di pastori o di divinità pagane.
E’ quanto avveniva nel lontano Seicento, nelle dimore dell’alta nobiltà. L’allestimento di spettacoli all’interno delle residenze era un modo per dare lustro al nome della propria famiglia, dimostrare gusti raffinati e ostentare solide ricchezze. Gli scrittori venivano stipendiati per mettere in scena sontuosi spettacoli in piccoli anfiteatri immersi nel verde, in grotte artificiali costruite nei parchi delle loro ville, oppure in sale apposite. I drammi pastorali nascevano così, per dilettare illustri mecenati con vicende di amori contrastati ambientate in una campagna idilliaca, da età dell’oro. Gli autori idealizzavano il passato e ne ricreavano gli usi ed i costumi seguendo la mentalità della loro epoca. Il pubblico cortigiano amava sognare, apprezzava l’armonia dei versi, le ballate inserite nella trama esile, le scenografie e i costumi fantasiosi, si stupiva grazie a qualche effetto speciale e veniva rassicurato dal lieto fine. Amava ritrovare le stesse emozioni sulla pagina, nei copioni teatrali o in romanzi lunghissimi, ricchi di digressioni e avventure di personaggi secondari.
Honoré d’Urfé, scrittore vissuto alla fine del Cinquecento, nel romanzo fiume L’Astrea diede vita alle romanzesche vicende dei pastori Celadon e Astrea, inventò per essi una Gallia immaginaria, la popolò di Ninfe e Druidi, di divinità pagane latine e celtiche.
Eric Rohmer ha trasposto la sua opera ad incastro in un film ricco di incanto e magia, mantenendo intatto lo spirito barocco che anima le pagine. Per apprezzare la pellicola bisogna calarsi nei panni di un lettore del XVII secolo e seguirlo in un mondo idilliaco, dove i pastori profumano di lavanda e sanno leggere e scrivere, le pecore sono candidi batuffoli e pascolano placide, i ‘Galli’ credono a un solo dio e non lo rappresentano, le Ninfe sono nobildonne. La bellezza regna sovrana in questo universo parallelo, risparmiato dalle durezze della vita quotidiana, dalla vecchiaia e dalla malattia. I cortigiani del Seicento vivevano in un ambiente privilegiato ma non ignoravano la cruda realtà della vita di ogni giorno, e nei drammi pastorali, nei romanzi e nei poemi epici probabilmente apprezzavano proprio la natura di stupendo artificio. Eric Rohmer cerca di avvicinare il pubblico del terzo millennio a quel tipo di sensibilità, grazie ai momenti di autentico lirismo, alle canzoni, ai monologhi, alle riflessioni sull’Amore.
Nonostante gli intenti del regista, la platea può faticare a calarsi nello spirito di un’epoca tanto lontana. Gli amori di Astrea e Celadon commuovono oppure suscitano ironia, e le opposte reazioni non dipendono esclusivamente dall’erudizione degli spettatori. Gran parte delle pellicole di essai che circolano nei cineforum sono realistiche, orientate all’impegno ideologico più dichiarato, all’introspezione, al dibattito sui problemi del mondo contemporaneo. Anche lo spettatore che evita accuratamente cinepanettoni e blockbuster può faticare ad appassionarsi al dramma pastorale, se pretende di valutarlo secondo criteri estetici tutti moderni e non si abbandona all’incanto della poesia.
I protagonisti sono figurine esili, presenze stereotipate che vivono nello spazio scenico, per il tempo della rappresentazione o del racconto. E’ ovvio che l’introspezione interessa poco l’autore e nessun personaggio è credibile, almeno per i gusti dell’uomo contemporaneo. Squadrati con occhio disincantato tutti i pastorelli sembrano puerili, testardi, creduloni abitanti di un reame di cartapesta. Astrea è volubile e capricciosa, Celadon impulsivo e cocciuto… le loro schermaglie amorose possono far sorridere e risultare indigeste ai più smaliziati.
La stessa spiritualità attribuita ai personaggi pagani è inverosimile, poco rispettosa delle credenze dei veri Celti. E’ ispirata al Cristianesimo, come dimostrano le spiegazioni teologiche fornite dal druido. I costumi seguono il gusto barocco, piuttosto che tentare una ricostruzione basata su Giulio Cesare o sulle sculture romane; e non si scandalizzino gli appassionati del mondo dei Celti, i rievocatori o i puntigliosi storici. La pretesa di ricostruire la Storia, quella vera, è lontana anni luce dalle intenzioni di Honoré d’Urfé e il regista rievoca i fasti del tardo Rinascimento, facendone proprio lo spirito.
La fotografia è stupenda, complici le belle locations della campagna francese; ogni inquadratura ricorda i dipinti che allietavano i palazzi nobiliari del tempo, gli affreschi che animavano i soffitti. Purtroppo la pianura di Forez oggi è devastata dall’urbanizzazione e dall’agricoltura intensiva; Rohmer ha immortalato altri scorci in varie zone della Francia e la bellezza del paesaggio parla al cuore al pari dei versi. I movimenti di macchina sono lenti, apparentemente semplici, lo stile narrativo sorprende e stupisce proprio perché contrasta con la concitata frenesia delle pellicole a noi contemporanee.
Gli attori sono volti poco conosciuti e il doppiaggio rende loro poca giustizia, ma sono guidati con mano sicura a soprattutto hanno la giusta presenza scenica. Sembrano davvero usciti dai quadri del tardo Rinascimento, ricordano i Preraffaelliti e Maxfield Parrish, come è giusto che sia.
Giocattolo non innocuo
Rohmer dà vita al dramma pastorale secondo l’estetica e il modo di pensare del tempo in cui il genere aveva raggiunto il massimo splendore, e in questo senso la sua opera è perfettamente riuscita.
Non aspettiamoci però un film innocuo, fatto di belle immagini e leziosaggini: l’anziano maestro della Nouvelle Vague ha nascosto messaggi trasgressivi sotto una patina di leggiadra poesia. La stessa scelta del soggetto è un grido contro la modernità: il dramma pastorale nega il realismo caro alla narrazione contemporanea, e contrappone ad esso la celebrazione della bellezza attraverso un raffinato artificio. Anche il mondo in cui viviamo è per molti aspetti una creazione artificiale, ma essa è voluta in nome del profitto. Il progresso viene condannato perché disumanizza, priva del gusto per la bellezza, obbliga a uno stile di vita innaturale. Costretto a lavorare pur di appagare bisogni troppo spesso indotti, l’uomo ha sempre meno tempo per riflettere, per apprezzare la compagnia dei suoi simili, per elaborare sentimenti autentici o godere dell’arte. Un messaggio, questo, che accomuna Rohmer a J.R.R. Tolkien, e che può accendere dibattiti tra i critici politicamente impegnati. La celebrazione di un idilliaco passato può essere considerata ‘di destra’, ma si fonde con la condanna marxista per il progresso industriale, che relega la persona al ruolo di forza lavoro e obbediente consumatrice di beni superflui. La posizione scelta dal regista è radicale, e scomoda, perché in diverse Nazioni la distribuzione delle pellicole è spesso legata al loro orientamento politico o all’interesse per l’attualità. Di conseguenza Gli amori di Astrea e Celadon ha avuto una diffusione tormentata, e dopo la discussa partecipazione alla 64° Mostra di Venezia, è praticamente scomparsa. Altrettanto trasgressivo è l’erotismo che pervade l’intera pellicola e non si limita al presunto legame saffico tra Celadon in abiti femminili e l’amata. Sarebbe stato facile, indulgere su dettagli espliciti, mostrare amplessi lesbici, come nelle commedie ‘decamerotiche’ in costume degli anni Settanta. Rohmer invece celebra la bellezza, in particolare quella femminile, eppure le scene di nudo sono pudiche e l’eros nasce tutto dal rimandare il soddisfacimento del desiderio. Di amore contrastato tratta il dramma, e il desiderio si traduce in immagini sensuali, in ricordi, in gesti e parole che alludono ad un erotismo raffinato, ad una carnalità fatta di ricordi struggenti, di mani che sfiorano appena una veste, di sguardi languidi. L’erotismo raggiunge il culmine nelle sequenze dei sogni di Celadon, nella visione di Astrea addormentata e nel bacio finale. Avviene qualcosa di analogo a quanto accade ad Angelica nell’Orlando Furioso: per gran parte del poema i cavalieri la inseguono, e quando la bella si innamora dell’umile fante Medoro, scompare dalla vicenda. La morte letteraria del personaggio ariostesco è paragonabile alla conclusione delle disavventure sentimentali dei pastorelli. Astrea e Celadon sono personaggi interessanti fino a quando il loro sentimento è irrealizzato. Quando la coppia può dar voce all’amore fisico, resta solo un sipario da calare. E vissero felici e contenti, proprio come nelle fiabe.
Titolo: Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d’Astrée et de Céladon)
Anno: 2007
Regia: Eric Rohmer
Produzione: Francia – durata 109 min.
Fotografia: Diane Baratier
Musica: Jean-Louis Valéro
Interpreti: Stéphanie de Crayencour, Andy Gillet, Cécile Cassel, Véronique Reymond, Rosette, Jocelyn Quivrin
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