Questa edizione tutta in streaming del Trieste Science Fiction Festival 2020, per i noti motivi ‘pandemici’, ha dato modo a un maggior numero di appassionati di poter godere della visione di un buon numero di film di una certa qualità e di farsi un’idea delle nuove tendenze del cinema di genere fantascientifico e fantastico, al di là dei soliti blockbuster made in USA. Unico neo di questo evento, per il resto molto ben organizzato in questa edizione ‘virtuale’, è lo scarso tempo concesso allo spettatore (pagante) di poter vedere tutti i film on line (non parliamo poi dei numerosi corti o delle serie televisiva coreana). Comunque sia, ecco una panoramica critica (a cominciare dai vincitori) di quasi tutti i lungometraggi del festival triestino, provenienti da vari paesi (tranne l’Italia purtroppo).

 

 

Vincitore Premio Asteroide: “Sputnik” di Egor Abramenko (Russia)

 

Sputnik

Sinossi
Nel 1983 in Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, nella fase finale di rientro la sala di controllo perde contatto con la navetta Orbit-4, che scompare dai radar assieme ai suoi occupanti. La navetta, tuttavia, riesce ad atterrare: a bordo c’è il corpo mutilato del comandante della missione, mentre l’altro membro dell’equipaggio viene trovato ancora in vita e portato in una base scientifica segreta, tenuto sotto costante osservazione. La neuropsicologa Tatiana Klimova viene incaricata di indagare i motivi dell’amnesia del cosmonauta, ma vedrà presto coi suoi stessi occhi la strana e terribile creatura che si nasconde all’interno del suo corpo…

Definito l’ Alien russo, Sputnik, un’opera prima che non sembra tale, vince con pieno merito il Premio Asteroide come miglior lungometraggio del festival. L’idea del parassita alieno non è certo nuova nel cinema sci-fi, ma l’esordiente Egor Abramenko tratta la ‘materia’ dell’ospite extraterrestre in un corpo umano con una padronanza tecnica e creativa notevole, confezionando un’opera che all’incalzante suspense del fantahorror unisce l’ambientazione (tutta terrestre) cupa e angosciante dell’Unione Sovietica degli anni ’80 e soprattutto il dramma umano dell’astronauta, eroe della Madre Russia, costretto a essere cavia e oggetto di ‘studio’ per via del misterioso e pericoloso ospite che alberga dentro di lui e in cui naturalmente i militari vedono una potenziale arma da sfruttare. L’alieno in questione è più un simbionte che un parassita e i tentativi di scoprire la natura esatta del rapporto di simbiosi tra l’astronauta e la creatura da parte della neuropsicologa, costituiscono tra i momenti più drammatici e avvincenti della pellicola, anche perché la studiosa vuole aiutare lo sventurato, a differenza dei militari che hanno altre priorità. L’alieno di Sputnik, ostile e imprevedibile, per alcune caratteristiche, più che l’Alien di Ridley Scott, ricorda quello di Life: Non oltrepassare il limite. Comunque, grazie anche a una CGI di ottima qualità, la creatura del film russo è una delle più ripugnanti e inquietanti di sempre. Nella sua ferina capacità di sopravvivenza e di controllo della sua vittima, la terribile creatura sembra rispecchiare sia il lato oscuro celato dentro di noi che l’oppressivo regime sovietico.

 

 

 

Menzione Speciale Premio Asteroide: “Come true” di Anthony Scott Burns (Canada)

 

Come True

Sinossi
Sogni oscuri perseguitano Sarah, un’adolescente intelligente, premurosa e ribelle. Tutte cose difficili a 18 anni e che le hanno causato problemi a scuola e a casa, dove non può tornare. Non sapendo dove andare, sul muro del bar del suo quartiere legge un annuncio per la ricerca di volontari per uno studio sul sonno. Dopo una sola seduta sotto l’occhio vigile di un team di scienziati, Sarah comincia a vedere nel periodo di veglia cose che appartengono ai suoi sogni. Le visioni peggiorano e prima che lei, o qualcuno degli scienziati, riesca ad agire, diventa l’inconsapevole tramite verso una nuova e terrificante scoperta…

Questa Menzione Speciale forse noi non l’avremmo assegnata al thriller onirico/sci-fi Come True, ma non perché si tratti di una pellicola brutta o banale, anzi…  Il fatto è che il film di Anthony Scott Burns (Our House), ci regala un’opera accattivante e misteriosa che crea inevitabilmente grandi aspettative ma inciampa in un finale inutilmente enigmatico e inconcludente che assesta allo spettatore un colpo basso, di quelli che uno può perdonare solo a David Lynch. Certo, i riferimenti espliciti a Philip Dick e una trama basata sui misteri del mondo onirico potevano far presagire un finale non troppo lineare ma questa volta si è esagerato. Peccato perché il film, con la sua problematica protagonista (interpretata da un’intensa e fragile Julia Sarah Stone), sempre sospesa tra sogno e realtà, riesce a creare un notevole impatto emotivo, unito alla voglia dello spettatore di scoprire il mistero della strana e spaventosa entità che sembra abitare gli incubi di Sarah (e non solo). Un film dotato di indubbio fascino, forse meritevole di una seconda visione, ma dal finale ‘semplicemente’ incomprensibile e deludente soprattutto perché arriva subito dopo una scena piena di tensione e mistero che faceva sperare in ben altre rivelazioni.

 

 

 

Vincitore Premio Méliès d’argent – Lungometraggi: “The Trouble with Being Born” di Sandra Wollner (Austria, Germania)

 

The Trouble with Being Born

Sinossi
Elli è un’androide dalle sembianze di ragazzina che vive con un uomo che chiama papà. Passano insieme l’estate: di giorno nuotano nella piscina, mentre la notte lui la porta a letto. Elli condivide con lui i ricordi e tutto quello che lui le programma di ricordare: memorie che significano tutto per lui, ma niente per lei. Tuttavia, una notte Elli si dirige verso il bosco spinta dall’eco di un vago ricordo. La storia di una macchina e dei fantasmi che tutti ci portiamo dentro…

In un’ Austria non particolarmente tecnologica o futuristica, sembra quasi normale utilizzare dei sofisticati simulacri di esseri umani come surrogati consolatori di persone scomparse o decedute. Elli, una bambina androide, senza una propria autonomia o ricordi personali, deve soddisfare le carenze affettive (e sessuali) di un uomo che chiama papà. Confusa da ricordi non suoi ma forse in cerca di una sua libertà, Elli finirà per allontanarsi andando incontro a un destino tragico. Partendo da uno spunto tipicamente fantascientifico (come in A.I. di Spielberg) la regista Sandra Wollner si allontana dai canoni sci-fi classici per imbastire un’opera sofisticata dalle atmosfere rarefatte e malinconiche che affronta tematiche scomode e scabrose come la solitudine, la perdita o la sessualità che declina verso la pedofilia. Nella seconda parte ancora più cupa (ma meno convincente) la fuggitiva Elli viene presa e sfruttata da altre persone per soddisfare carenze di altro tipo (sostituire il fratello di un’anziana signora morto in gioventù) che non esiteranno a trasformarlo in un ragazzo, in verità piuttosto bruttino e poco credibile. Come una sofisticata bambola o marionetta, Elli può essere riprogrammata e cambiata a piacimento anche se sembra covare nel profondo un’inquieto desiderio di avere una propria identità. Al di là della distonia tra le due parti del film, che impediscono alla prima vicenda di avere un adeguato sviluppo e di chiarire tutti i dubbi dello spettatore, The Trouble with Being Born è un’opera che lascia il segno con la sua storia suggestiva, morbosa e vagamente inquietante.

 

 

 

Menzione speciale Premio Méliès d’argent – Lungometraggi: “Post Mortem” di Péter Bergendy (Ungheria)

 

Post Mortem

Sinossi
A seguito delle distruzioni causate dalla Prima guerra mondiale e dalla febbre spagnola, innumerevoli spiriti sono rimasti intrappolati nel nostro mondo. Tomas, un giovane giramondo che si occupa di fotografie artistiche di cadaveri, incontra una ragazzina orfana, Anna, e finisce in un piccolo villaggio ungherese durante il gelido inverno del 1918. Mano a mano che impara a conoscere la vita e gli abitanti del paese, sente di dover scappare: solo una visione notturna e la certezza dell’esistenza dei fantasmi lo trattengono. Con l’aiuto degli strumenti a sua disposizione, decide di indagare le intenzioni dei fantasmi e di trovare un modo per liberarsene…

La macabra usanza della fotografia post mortem (in uso a cavallo tra XIX e XX secolo) costituisce lo spunto iniziale di Post Mortem, horror soprannaturale di insolita produzione ungherese che si è aggiudicato anche il Premio RAI4. Più che la vicenda in se stessa, non particolarmente paurosa o misteriosa, il punto di forza di questa ghost story è costituito dall’ambientazione suggestiva (ricreata magistralmente l’Ungheria rurale post Grande Guerra) e dal rapporto umano che si crea tra i due protagonisti, il fotografo ex soldato cacciatore di spettri Tomàs (Viktor Klem) e la giovanissima Anna (Fruzsina Hais). Purtroppo le manifestazioni ‘paranormali’ di Post Mortem, reiterate eccessivamente e diluite nella notevole lunghezza della pellicola, finiscono per prevalere sulle atmosfere spettrali e goticheggianti e tolgono suspense a un finale farraginoso ed esagerato: tra persone che volano qua e là, sollevate da forze invisibili e case che sprofondano nel sottosuolo, il film rischia di scadere nel grottesco involontario, tipico di horror più mainstream. Nonostante le sue indubbie qualità Post Mortem forse doveva lasciare la Menzione speciale del Premio Méliès d’argent a qualche altra pellicola del festival triestino.

 

 

 

Menzione Speciale Premio RAI4: “Mortal” di André Øvredal (Norvegia, USA, UK)

 

Mortal

Sinossi
Eric, un giovane escursionista americano nelle terre desolate della Norvegia occidentale, uccide accidentalmente e inspiegabilmente un adolescente, venendo poi arrestato. Prima di essere interrogato, incontra Christine, una giovane psicologa che cerca di capire cosa sta davvero succedendo: è lei l’unica che gli crede e si interessa a lui. Presto si fa viva l’Ambasciata americana che vuole estradare Eric, ma lui riesce a fuggire assieme a Christine. Durante la fuga, braccato dalle autorità norvegesi e americane, scoprirà finalmente chi, o che cosa, è.

Tra i premi più immotivati c’è Mortal di André Øvredal, regista norvegese che si è fatto apprezzare in questi ultimi anni per l’originale Troll Hunter, il pauroso Autopsy e il divertente teen horror Scary Stories to Tell in the Dark, quindi non proprio un novellino nel cinema di genere fantastico. Invece questo Mortal, pur girato con mestiere ed eleganza negli splendidi paesaggi scandinavi, è una rilettura scialba e noiosa del mito di Thor, la celebre divinità della mitologia norrena. Anche se il film si allontana doverosamente dallo stile Marvel super eroico del suo Thor, il banale e prosaico protagonista, fastidiosamente pauroso e confuso per buona parte della vicenda prima di riuscire ad utilizzare i suoi poteri divini, non suscita particolare interesse o emozione. Dopo aver scoperto di essere, assurdamente e inspiegabilmente, il discendente di una schiatta divina, il protagonista Eric (interpretato da un anonimo Nat Wolff) richiede la sospensione dell’incredulità da parte dello spettatore quando a un certo punto ritrova il famoso martello di Thor in un’antica fattoria. Non che manchi qualche buona sequenza ‘action’ o qualche colpo di scena ma in Mortal assistiamo alla fine alla stereotipata nascita di un supereroe qualsiasi che l’impronta realistica del film cerca inutilmente di ‘nobilitare’. E quando finalmente la cosa si potrebbe fare interessante (ad esempio con il disvelamento della natura ambigua dei poteri di Eric sia distruttivi che guaritori) il film ovviamente termina, perché non si tratta del primo episodio di una serie TV. Guarda caso esiste una serie Netflix, Ragnarok che ha quasi la stessa trama: un giovane studente norvegese scopre di avere strani poteri, quelli del dio Thor…

 

 

 

Vincitore Premio Nocturno Nuove Visioni: “Meander” di Mathieu Turi (Francia)

 

Meander

Dopo aver accettato un passaggio da uno sconosciuto, Lisa si risveglia in un labirinto di cunicoli pieno di trappole mortali e mostruose presenze. Al polso ha un braccialetto con un conto alla rovescia: capisce subito che ogni 8 minuti il fuoco brucia una sezione di quel labirinto. Per sopravvivere, non ha quindi altra scelta che strisciare verso le parti sicure. Per scoprire perché si trova là e come uscirne, Lisa dovrà affrontare i ricordi della figlia morta…

Meander è uno di quei film che sanno prenderti alla gola e ti conquistano, nonostante lo spettatore più scafato si aspetti da un momento all’altro la cosiddetta c……ta pazzesca che fa crollare il tutto. E in effetti la storia della depressa ma atletica Lisa, catturata da qualcuno o qualcosa, animato da misteriose intenzioni e sadiche pulsioni, e rinchiusa in un claustrofobico labirinto pieno di trappole mortali rimanda inevitabilmente ai classici del survival o trap movies come The Cube o Saw e si lascia vedere fino alla fine per via di un’indubbia suspense e alcune scene ‘forti’. Ma mentre The Cube preferisce evitare qualsiasi spiegazione o soluzione nel finale, Meander, dopo aver abilmente escluso la pista ‘serial killer’ alla Saw (la sventurata protagonista si era imbattuta in un maniaco omicida poco prima di rimanere misteriosamente intrappolata) vira inaspettatamente verso la fantascienza, però in modo poco convincente e sfocato. Ma al regista francese Mathieu Turi (che si era presentato all’edizione del festival triestino del 2017 con l’horror post-apocalittico Hostile), interessa soprattutto farci immergere nel calvario spirituale e fisico che deve affrontare la protagonista, ben interpretata da Gaia Weiss, nota come una delle ‘valchirie’ della serie TV Vikings. Tra dolorose visioni della figlia morta, incontri con ripugnanti creature e crudeli trappole (che costeranno un piede mozzato), la Weiss deve reggere sul suo fisico atletico (inguainato in un costume attillato e costretto negli angusti cunicoli) tutto il ‘peso’ del film, recitato prevalentemente a carponi o strisciando.

 

I migliori film non premiati

Tra i film che non si sono aggiudicati alcun premio uno dei più meritevoli e interessanti è sicuramente Lapsis (USA) di Noah Hutton, graffiante satira di fantascienza distopica sulla gig economy, ovvero l’economia dei lavoretti saltuari e insicuri, spesso gestiti da piattaforme digitali. In un futuro alternativo (già simile in verità al nostro presente), il volenteroso Ray, anche per aiutare il fratello malato, si cimenta in un lavoro ‘kafkiano’ legato a una nuova tecnologia di comunicazione quantistica. Tra commedia brillante e dramma sociale (dai risvolti grotteschi), faremo conoscenza del mondo dei ‘cablatori’, ovvero una nuova tipologia di lavoratori che devono arrancare in mezzo a boschi e foreste tirando dei cavi da collegare a grossi cubi metallici, assurdamente collocati in ambienti naturali e isolati.

 

In ambito fantascientifico segnaliamo anche Dune Drifter (UK) di Marc Price, produzione dal budget ridottissimo e dalla singolare estetica low-tech che ricorda Prospect (presentato all’edizione 2018 del festival), tra astronavi scalcagnate, tute spaziali rabberciate alla meglio e armi da fuoco non troppo efficienti. Avvincente avventura spaziale e planetaria, Dune Drifter si avvale di effetti speciali ottici in stile anni ’70 e modellini in scala come nel primo Guerre Stellari.

 

Più sgradevole e disturbante che pauroso, è risultato l’horror australiano Relic di Natalie Erika James, già accomunato al sopravvalutato Babadook. Come il film del 2014, Relic, scontata allegoria sugli ‘orrori’ della vecchiaia e della malattia mentale, è pesantemente derivativo soprattutto nei confronti del film found-footage The taking of Deborah Logan (2014). Impressionanti comunque gli effetti speciali da ‘body horror’ e ottima la prova del cast tutto al femminile composto da Emily Mortimer, Robyn Nevin e Bella Heathcote.

 

 

A parte il vincitore Sputnik, meritano un plauso anche gli altri film russi che ormai rivaleggiano apertamente, quanto a spettacolarità e azione, con quelli americani, come l’action post-apocalittico The Blackout, dove un gruppo di militari si deve opporre a una misteriosa e devastante invasione, e Coma film di grande impatto visivo ma tematicamente troppo debitore verso Inception.

 

Tralasciando alcuni film horror, godibili ma piuttosto convenzionali, chiudiamo la nostra panoramica sul Trieste Science Fiction Festival 2020 con un film di fantascienza argentino, Inmortal diretto da Fernando Spiner, considerato un pioniere della fantascienza latinoamericana. Inmortal è una suggestiva e malinconica pellicola su un mondo parallelo che si configura come una sorta di al di là metafisico/quantistico a cui si può accedere tramite un portale per incontrare i nostri cari defunti. Lo spunto accattivante, che ricorda quello del film La scoperta, viene in parte vanificato da un andamento poco incisivo, soprattutto nel mancato sviluppo degli elementi più propriamente fantascientifici, solo vagamente accennati come nel caso della citazione del Paradosso del gatto di Schrödinger.

Inmortal