Il genere thriller nel cinema è noto per la sua capacità di tenere gli spettatori sul filo del rasoio attraverso una combinazione di suspense, tensione psicologica e un intreccio misterioso e avvincente. Caratterizzato da trame intricate e situazioni ad alto tasso di adrenalina, il thriller si presta a una vasta gamma di sottogeneri, spaziando dal crime thriller al psychological thriller, dall’action thriller al thriller paranormale. I confini labili e sfumati del genere thriller, naturalmente, permettono una sua ibridazione con l’horror, anche il più perturbante ed estremo. Maestro del thriller cinematografico può essere considerato Alfred Hitchcock che ne ha messo in luce attraverso le sue opere  le caratteristiche salienti che includono la creazione di una suspense palpabile, spesso attraverso situazioni di pericolo imminente o misteri da risolvere. I protagonisti sono sovente immersi in situazioni in cui le loro vite sono in gioco, e il pubblico è coinvolto emotivamente nel destino dei personaggi. Elementi come colpi di scena, false piste e rivelazioni inaspettate contribuiscono a mantenere alta l’attenzione degli spettatori.

Nella seguente rassegna prenderemo in esame una serie di pellicole, secondo noi tra le migliori degli ultimi anni, di genere thriller-horror prive di elementi soprannaturali o fantastici ma comunque ricche di mistero, terrore e violenza non disgiunti talvolta da messaggi di critica ‘sociale’.

 

 

Barbarian (2022)

 

Se volete vedere un film teso, imprevedibile e spiazzante, allora Barbarian (2022) fa al caso vostro. Diretto dal quasi esordiente e sorprendente Zach Cregger, Barbarian è un thriller affilato e implacabile che inizia con un prosaico disguido di prenotazioni (per una casa in affitto breve nell’era di Airbnb), prosegue con la tensione psicologica generata da due estranei costretti a condividere lo stesso tetto in una situazione di emergenza e termina come un horror malsano e raccapricciante, ma senza elementi soprannaturali che annacquerebbero in questo caso una vicenda già di per se agghiacciante e carica di suspense. Lo spettatore viene abilmente tenuto in uno stato di incertezza sulla direzione che prenderà la storia e sulla natura effettiva dei personaggi: se la protagonista femminile Tess, interpretata da Georgina Campbell, è la classica ‘final girl’ (senza troppo ‘girl power’ per fortuna) che deve sopravvivere in una Detroit ‘barbarica’ degna erede di 1997: Fuga da New York, l’ambiguo personaggio di Bill Skarsgard potrebbe non essere la minaccia principale per la ragazza. Del resto Skarsgard, abbonato a ruoli di villain dopo l’interpretazione del pagliaccio demoniaco di IT, esce inaspettatamente di scena e a questo punto inizia un nuovo film con nuovi personaggi. E infatti tramite un flash back, risaliamo agli anni ’80 di Ronald Reagan e all’origine del Male con un nuovo terribile personaggio (Richard Brake) che si trasferisce nella casa in una Detroit che si sta spopolando, durante il suo declino sociale ed economico ma rappresentata da Cregger con colori vividi e sgargianti. Decadenza in verità iniziata prima, negli anni ’60 e ’70 e che prosegue speditamente ancora oggi nell’America di Biden, guerrafondaia e invasa da nuove droghe. Per non fare ulteriori spoiler diremo semplicemente che Tess, farà delle inquietanti scoperte nelle cantine sotterranee dell’abitazione e ci sarà anche un richiamo al #MeeToo con il personaggio di A.J., il proprietario della casa, attore rampante e sospetto molestatore di donne, interpretato da un efficacemente odioso Justin Long. Ma il bello (o meglio il brutto) deve ancora arrivare e Barbarian alla fine riesce a fare paura come dovrebbe fare ogni film horror sporco e cattivo che si rispetti.

 

Watcher (2022)

 

Anche nel thriller Watcher (2022) troviamo una donna in pericolo come in Barbarian, isolata in una città straniera (Bucarest in Romania) e con un marito che sembra non credere troppo alle sue paure, in questo caso rappresentate da una figura indistinta che la osserva dalla finestra del palazzo di fronte e (forse) la segue quando lei esce. Il modello di riferimento del film è chiaramente quello del classico La finestra sul cortile di Hitchcock, che poi la regista Chloe Okuno, esordiente nel lungometraggio (prima si era distinta per aver diretto un episodio dell’horror antologico found-footage V/H/S 94), riesce a sviluppare e aggiornare secondo la sensibilità odierna. Quindi ecco un’altra donna, isolata, sottovalutata, incompresa, che per sopravvivere dovrà fare affidamento solo su se stessa in un ambiente che sembra non troppo ‘friendly’ con il genere femminile, una Bucarest moderna ma cupa e inospitale dove sembra aggirarsi un elusivo e spietato serial killer di giovani donne, soprannominato il Ragno che ha la poco simpatica caratteristica di decapitare le sue vittime. La sapiente sceneggiatura di Zack Ford riesce ad instillare fino all’ultimo nello spettatore il dubbio sulla reale entità delle paure della protagonista Julia, interpretata dalla brava Maika Monroe di It Follows, e sulla effettiva identità del suo vicino di casa (interpretato da un anonimo e inquietante Burn Gorman), solo ‘guardone’ o anche stalker e killer? Del resto la spaesata Julia, che ha seguito il marito, in trasferta in Romania per motivi di lavoro, tiene in apprensione lo spettatore con comportamenti non troppo avveduti e prudenti (almeno per ogni ‘esperto’ di film thriller/horror), rimanendo spesso in piena vista nell’appartamento con le luci accese e senza chiudere le tende e ricambiando a un certo punto con un saluto il suo misterioso “osservatore” alla finestra. Inoltre, quando non viene creduta dalla polizia sul fatto di essere seguita anche fuori casa, si imbarca in una pericolosa indagine personale che rischia di portarla faccia a faccia con il Ragno. Poco saggia anche la decisione di andare a rilassarsi in una buia e solitaria sala cinematografica (chi lo farebbe nella realtà?). Ma sono tutti espedienti narrativi creati ad arte per far crescere la tensione che si fa spasmodica fino al finale adrenalinico e ‘gore‘. Watcher è un thriller paranoide che funziona, a parte qualche piccola sbavatura o forzatura, ma quello che preme alla regista è mettere in risalto, tramite l’isolamento di Julia, la problematica dello stalking e delle aggressioni a sfondo sessuale verso le donne, senza per questo appesantire o annacquare la suspense del film. Certo, come in Barbarian, i personaggi maschili sono tutti (o quasi) figure negative, compreso il marito di Julia di origini rumene, facendo trasparire sullo sfondo una società ancora patriarcale e maschilista. Ma a noi questa Bucarest fatta di appartamenti spaziosi e ricevimenti di gente elegante ‘in carriera’, ricorda di più gli USA che hanno esteso la loro influenza economica e sociale (serial killer compresi) sui paesi dell’Europa dell’Est dopo la caduta dell’Unione Sovietica.

 

Downrange (2017)

 

Downrange (2017), diretto da Ryuhei Kitamura, è un survival thriller che mette gli spettatori al centro di una situazione di estrema tensione e pericolo. Con una trama apparentemente semplice, quasi inesistente, il film riesce a mantenere una suspense avvincente portando in scena un’altra famigerata figura dell’ex sogno americano dopo il serial killer, il mass murderer o meglio in questo caso, un cecchino spietato che bersaglia ignari automobilisti, nascosto tra le fronde di un albero.
La storia inizia quando un gruppo di amici si trova bloccato su una strada deserta della campagna americana a causa di uno pneumatico scoppiato. Tuttavia, la situazione prende una piega drammatica quando scoprono di essere sotto il mirino di un cecchino misterioso, costretti a lottare per la sopravvivenza in un ambiente apparentemente privo di vie di fuga e bloccati dietro il loro veicolo come unico fragile riparo. Lo ‘sniper’, dalle ignote motivazioni, gioca sadicamente al gatto con il topo con gli sventurati ragazzi.
Uno degli elementi distintivi di Downrange è la sua capacità di sfruttare l’isolamento (i cellulari non prendono) e la vulnerabilità dei personaggi per creare un’atmosfera di costante pericolo. La regia di Kitamura è affilata, con un uso efficace delle riprese e un ritmo che non concede tregua agli spettatori. Le sequenze di azione e le varie uccisioni sono intense e ben coreografate, aumentando ulteriormente la tensione. Il ritorno di Kitamura alle produzioni indipendenti, dopo No One Lives e il flop del ‘lovecraftiano’ Prossima fermata: l’inferno, entrambi prodotti Universal, gli ha permesso di sfoderare le sue migliori qualità di regista dalla tecnica virtuosa, in grado di tenerci incollati alla poltrona con una vicenda quasi assurda e senza senso. Il film si basa su una premessa relativamente semplice ma riesce a esplorare tematiche più profonde legate alla sopravvivenza e all’istinto umano di fronte a situazioni estreme. La resistenza psicofisica dei personaggi è messa duramente alla prova, e il film offre spunti interessanti sulle dinamiche di gruppo e sui limiti che le persone sono disposte a superare quando sono minacciate.
Il cast, composto principalmente da attori emergenti, offre performance convincenti, trasmettendo il panico e la disperazione che i loro personaggi stanno vivendo. La mancanza di background dettagliati sui protagonisti aumenta la sensazione di immediato pericolo, costringendo gli spettatori a connettersi con la situazione estrema a cui assistono senza distrarsi con storie personali troppo elaborate o stucchevoli. Ancora una volta alla fine, il personaggio più tosto sarà una ragazza che da ‘final girl’ ingaggerà con l’assassino armato di fucile (con cui non ci sarà nessuna comunicazione o interazione nel film, a parte i proiettili) una disperata lotta di pura sopravvivenza basata anche sull’astuzia. Pur senza grandi sorprese, il regista giapponese comunque ci riserverà un finale beffardo venato di umorismo nero.

 

Lake Bodom (2016)

 

Lake Bodom (2016), diretto da Taneli Mustonen, è un thriller-horror finlandese che si basa su un triplice omicidio realmente accaduto avvenuto vicino al Lago Bodom in Finlandia nel 1960, rimasto a tutt’oggi senza un colpevole. Quattro giovani campeggiatori furono aggrediti da un ignoto assassino armato di coltello. Tre furono le vittime e l’unico sopravvissuto, rimasto ferito, fu in seguito sospettato dell’eccidio e arrestato molti anni dopo nel 2004 per poi essere dichiarato innocente. Il film si sviluppa inizialmente come un classico slasher movie per poi prendere una svolta imprevedibile in una storia che combina abilmente suspense, mistero e colpi di scena. Ma la somiglianza con gli slasher americani degli anni ’80 è solo apparente e il regista sa rinnovare brillantemente il genere. Il film saggiamente non ricostruisce la vicenda complessa e intricata del 1960, vera tragedia nazionale per la pacifica Finlandia, ma si svolge ai giorni nostri negli stessi luoghi dell’efferato eccidio.
La trama segue quattro giovani (due maschi e due femmine), interpretati da Mimosa Willamo, Tommi Korpela, Nelly Hirst-Gee e Santeri Helinheimo Mäntylä, che decidono di fare un campeggio vicino al Lago Bodom, il luogo del famigerato e brutale omicidio di massa avvenuto negli anni ’60, con lo scopo di ripercorrere quanto successo nella notte del misterioso massacro anche per vagliare la plausibilità delle varie ipotesi investigative fatte ai tempi. Ovviamente la situazione, dopo l’iniziale apparente quiete, prenderà una piega sinistra con l’uccisione dei due ragazzi e i confini tra realtà e paranoia inizieranno a sfumare, creando un’atmosfera di crescente terrore per le due ragazze sopravvissute. Lo spettatore comincia a chiedersi se ci sarà un collegamento con i delitti del 1960…
Lake Bodom si distingue per la sua abilità nel mescolare generi, passando da momenti di pura tensione ad accenni di approfondimento psicologico. La fotografia di Daniel Lindholm sfrutta il selvaggio paesaggio nordico con i suoi colori freddi, in efficace contrasto con il rosso del sangue, per creare un’atmosfera oscura e opprimente, mentre la colonna sonora contribuisce a intensificare la suspense.
Il cast offre performance convincenti, specialmente considerando la giovane età dei protagonisti. Le dinamiche psicologiche tra i personaggi che emergono nel corso della storia, aggiungono profondità al film e andranno a interessare tematiche controverse e attuali come il bullismo e il disagio giovanile.
Ciò che potrebbe distinguere Lake Bodom è la sua abilità nel confondere lo spettatore, mantenendo un senso di incertezza sulle reali minacce presenti nella trama. Il film non teme di sfidare gli stereotipi del genere horror e di offrire colpi di scena inaspettati e cambi di prospettiva spericolati.

 

 

Big Bad Wolves (2014)

 

Big Bad Wolves (2014), un thriller israeliano diretto dai registi Aharon Keshales e Navot Papushado, è una tesa e oscura meditazione sulla giustizia e la vendetta. Definito ai tempi “il film più bello dell’anno” da Quentin Tarantino, la pellicola intreccia abilmente elementi di suspense, dramma e umorismo nero per creare una narrazione coinvolgente e complessa, a cui non mancano elementi pulp che in parte rimandano al violento e iconico Le Iene.
La trama ruota attorno a una serie di omicidi di bambini e al tentativo di farsi giustizia da parte di un avvocato, interpretato da Lior Ashkenazi, e un ex poliziotto la cui figlia è scomparsa, interpretato da Rotem Keinan. Questi due personaggi si trovano a condividere una missione comune: trovare il presunto assassino, interpretato da Tzahi Grad, e far emergere la verità attraverso metodi estremi (tortura) dopo averlo catturato e tenuto segregato in un seminterrato. Tutta la suspense del film si basa sull’incertezza dell’effettiva colpevolezza dell’uomo sospettato di essere un killer pedofilo. Tanto più che un utilizzo della tortura (magari maldestro) non garantisce necessariamente confessioni veritiere.
Ciò che distingue Big Bad Wolves è la sua capacità di sfidare lo spettatore su dilemmi morali di attualità come la liceità dell’utilizzo della tortura per vendicare e impedire crimini atroci come quelli commessi contro bambini. Il film tocca tematiche eticamente complesse, senza adottare una prospettiva morale netta ma fornendo il ritratto di una società, quella israeliana, abituata alla violenza e all’uso delle armi. Chi sono i lupi grossi e cattivi del titolo? Il professore dall’aria innocua, sospettato delle uccisioni, o i giustizieri aspiranti torturatori a cui si aggiungono nel corso del film altri personaggi, potenzialmente lupi ancor più cattivi? La regia di Keshales e Papushado è raffinata, con una fotografia ben curata e una narrazione che tiene lo spettatore in bilico tra l’orrore e l’intrigo dai risvolti grotteschi. Le performance del cast sono notevoli, specialmente quella di Tzahi Grad, che offre una interpretazione memorabile del presunto criminale, in bilico tra inoffensivo professore, viscido pedofilo e feroce assassino.
Il film offre una visione stimolante ma non è per tutti, poiché alcune scene possono risultare estreme anche se la violenza è filtrata da un certo umorismo ebraico e da un sarcasmo di marca tarantiniana. Inoltre la sua trama complessa richiede un coinvolgimento attivo da parte dello spettatore che deve resistere fino al grande colpo di scena finale. Un colpo di scena spiazzante per lo spettatore che fino all’ultimo è impossibilitato a capire con certezza se il sospettato sia colpevole o no.