Silencio, il sipario è calato

 

Alla fine, con un colpo di scena disorientante tipico dei suoi film, il maestro David Lynch ci ha lasciato il 15 gennaio 2025, sconfitto da un enfisema polmonare causato dal prosaico vizio del fumo, proprio mentre Los Angeles e Hollywood stavano andando in fumo, divorate da incendi incontrollabili di misteriosa origine. Noi cinefili e amanti del cinema fantastico ce lo siamo sempre immaginato virtualmente immortale, sempre dedito a bizzarri progetti artistici anche se con il cinema vero e proprio diceva di aver chiuso dopo la realizzazione dell’ermetico Inland Empire (2006). Fortunatamente per tutti noi ci ha ripensato nel 2017 con il ritorno a Twin Peaks (3° stagione) riportando la sua arte sul mezzo televisivo, ritenuto più atto a contenere la sua magmatica fantasia. Ora che l’inevitabile inconveniente della morte lo ha colto nel pieno della sua maturità artistica (78 anni erano pochi per il suo strabordante talento creativo), ci piace immaginarlo ospite della Loggia Nera o della Stanza Rossa, luoghi non troppo ameni o idilliaci per il riposo eterno ma sicuramente interessanti.
Il sipario è calato nel Club Silencio di Mulholland Drive ma il cinema di David Lynch, fatto della materia effimera dei sogni, continuerà a vivere in tutti noi.
Non ci resta che ripercorrere insieme mestamente il suo cammino artistico cinematografico, luminoso e oscuro al tempo stesso, che ha segnato in maniera indelebile la vita di svariati cinefili.

 


David Lynch: da maestro del surrealismo cinematografico a meteorologo dell’inconscio

 

Nel panorama della settima arte, pochi autori hanno saputo plasmare un linguaggio così distintivo e personale come David Lynch. Figura cardine del cinema sperimentale americano, Lynch ha costruito un universo onirico dove il confine tra realtà e sogno si dissolve in un amalgama di visioni surreali e inquietudini psicologiche. Lynch nasce prima come artista poliedrico (pittura, musica, scultura, designer di interni…) che come regista cinefilo e le sue prime opere appartengono più alla video arte che al cinema in senso stretto. Ma i suoi cortometraggi riflettono le stesse tematiche enigmatiche e visive presenti nelle sue opere cinematografiche. Lynch ha sempre avuto un forte interesse per l’inconscio e il sogno, elementi che permeano sia i suoi film che i suoi cortometraggi. Opere come The Alphabet e Premonitions Following an Evil Deed utilizzano immagini oniriche e simboliche per esplorare temi di ansia e paura, sentimenti che Lynch conosceva molto bene. Questi cortometraggi, realizzati con tecniche visive innovative, si allineano perfettamente con la sua filmografia più ampia, dove il sogno diventa un modo per accedere a verità più profonde e inquietanti sulla condizione umana. Nel corto The Grandmother, combina audacemente elementi di animazione e live-action per esprimere emozioni complesse. Nel suo ultimo film Inland Empire del 2006 arriva ad inserire alcuni frammenti tratti da Rabbits (2002, serie web composta da 8 cortometraggi), una grottesca sitcom (con tanto di risate e applausi registrati) interpretata da conigli umanoidi. Lynch stesso ha affermato: “Mi piacciono le cose che sono oniriche ma strane in superficie e che hanno qualcosa sotto”. Le tematiche della violenza, dell’identità e della dualità dell’individuo sono centrali sia nel cinema di Lynch che nella sua video arte. Ad esempio, The Alphabet (interpretato dalla prima moglie di Lynch, Peggy Reavey) ci trasporta in un malsano mondo da incubo, apparentemente indecifrabile, una fiaba oscura raccontata con i mezzi artistici dell’avanguardia più sperimentale. Questa esplorazione della psiche umana è una costante nel suo lavoro, rendendo i cortometraggi sia un prologo che una continuazione naturale delle sue narrazioni cinematografiche.
Se cerchiamo un precursore del cinema di Lynch, lo possiamo ravvisare nel cinema surrealista di Luis Buñuel, poiché entrambi i registi condividono un interesse per l’esplorazione dell’inconscio, l’uso di immagini oniriche e una narrazione che sfida le convenzioni tradizionali. Buñuel, con film iconici come Un chien andalou (1929), ha cercato di rivelare la logica illogica dei sogni, proprio come Lynch ha dato vita a mondi onirici attraverso opere come Eraserhead e Mulholland Drive. Entrambi i cineasti non esitano a criticare la società attraverso le loro opere. Buñuel, più ‘politico’ e anticlericale, spesso mette in discussione le convenzioni borghesi e le ipocrisie sociali, mentre Lynch, apparentemente un sognatore/artista disimpegnato, esplora il lato oscuro dell’American Dream, come evidenziato in Velluto Blu e Twin Peaks, utilizzando con disinvoltura i topoi del cinema di genere (noir, thriller, horror…). Le loro narrazioni rivelano come la superficie della realtà possa nascondere una profonda inquietudine e un’oscurità insondabile.
La relazione tra Lynch e Buñuel non è solo teorica; Lynch stesso ha riconosciuto l’influenza del surrealismo buñueliano sulla sua opera. Nel 1987, Lynch è stato invitato a presentare un episodio della serie BBC Arena, dove ha discusso l’importanza del surrealismo nel cinema, evidenziando film come Un chien andalou come fonte d’ispirazione.
Se passiamo a considerare le influenze letterarie, consapevoli o meno, sull’opera lynchiana, vengono facilmente in mente grandi autori come Kafka, Dostoevsky, Poe, Faulkner, Beckett con il suo teatro dell’assurdo o i più recenti Paul Aster e Thomas Ligotti, autore weird oltremodo cupo e pessimista. Ma c’è uno scrittore, sconosciuto ai più ma riscoperto e pubblicato di recente in Italia, la cui definizione di “meteorologo dell’inconscio” si attaglia benissimo anche a David Lynch. Stiamo parlando di Robert Aickman (Londra 1914-1981) considerato uno dei più grandi scrittori del fantastico weird del ‘900. Probabilmente i due non sapevano niente l’uno dell’altro ma certe “strange stories” di Aickman sembrano scritte apposta per i film di Lynch, aldilà delle ambientazioni prettamente ‘british’ dello scrittore inglese. Se vogliamo definire Lynch un “meteorologo dell’inconscio” facciamo notare curiosamente che il nostro regista ha tenuto a Los Angeles, per alcuni anni fino al 2022, dei report sul tempo meteorologico, dove bizzarre considerazioni personali si alternavano a ipnotici (e superflui) bollettini meteo.

 


I Film

 

La poetica lynchiana si è definita fin dagli esordi cinematografici con Eraserhead (1977), opera prima che già conteneva tutti gli elementi caratteristici del suo cinema: atmosfere oniriche, sound design ipnotico, personaggi ai margini della normalità e una narrazione che sfida le convenzioni tradizionali. Il suo è un cinema “sensoriale”, fatto di suoni e visioni, che talvolta mettono in secondo piano la narrazione principale. Questo film di culto, girato in bianco e nero, vede protagonista un uomo stralunato e inadeguato, caratterizzato da un’inconfondibile alta capigliatura (interpretato da Jack Nance il primo attore ‘feticcio’ di Lynch), che conduce una vita solitaria in una tetra ambientazione urbana pervasa da sonorità ‘industrial‘. Costretto a sposare la fidanzata incinta, si troverà ad accudire una progenie mostruosa. Surreale, grottesco, malsano, Eraserhead è svincolato da esigenze o condizionamenti commerciali ma ha attirato l’attenzione del mondo del cinema che conta. E’ ormai noto che il grande Stanley Kubrik, durante le riprese di Shining, proiettasse ininterrottamente Eraserhead, affinché gli attori fossero messi nello ‘giusto’ stato d’animo per recitare in un film horror angosciante. Lo stesso Lynch ha definito la sua opera prima «Un sogno di cose oscure e ingarbugliate».

 

Con The Elephant Man (1980), Lynch ha dimostrato di poter coniugare la sua sensibilità artistica con una narrazione più accessibile, pur mantenendo intatta la sua visione autoriale. La vera tragica storia di John Merrick, l’uomo elefante, reso deforme da una malattia terribile e costretto a esibirsi come fenomeno da baraccone nell’Inghilterra Vittoriana, non impedisce a Lynch di amalgamare magistralmente una vicenda drammatica dai toni commoventi con la sua consueta visionarietà weird che ben tratteggia la crudele e avida società dell’epoca e l’ambiente cinico e spietato della ricerca medico-scientifica. I titoli di testa e di coda onirici e inquietanti racchiudono una narrazione essenzialmente realistica e tradizionale ma più spaventosa e angosciante di tanti film horror canonici. Memorabili le interpretazioni di John Hurt (John Merrick) e Anthony Hopkins (Dr. Treves). Il film ha ottenuto otto nomination agli Oscar.

 

I riconoscimenti ottenuti da The Elephant Man aprono a Lynch la strada a progetti più ambiziosi e potenzialmente di maggiore successo commerciale. Ma l’arte peculiare di Lynch mal si adatta alle logiche commerciali delle produzioni mainstream. Con la realizzazione nel 1984 del fantascientifico Dune (già ampiamente trattato qui), Lynch ha il suo primo duro sconto con l’industria cinematografica, dopo che aveva saggiamente rifiutato la proposta di dirigere Star Wars – Il ritorno dello Jedi. Eppure nonostante l’iniziale flop, anche Dune, come quasi tutti i film di Lynch, con il tempo è salito al rango di film di culto. Ma è anche vero che dopo Dune, il regista ben si guarderà dal realizzare grosse produzioni che lo costringessero a venire a compromessi con la sua visione artistica e con il suo metodo di lavoro molto libero e intuitivo che mal tollera vincoli di tipo economico od orari e tempistiche troppo stringenti..

Con Velluto Blu (Blue Velvet, 1986), il regista realizza una pietra miliare del cinema contemporaneo che ha saputo svelare il lato oscuro del sogno americano attraverso un’indagine che si trasforma in discesa negli abissi della psiche umana. Cresciuto negli anni ’50 nella tranquilla provincia americana (a Missoula nel Montana), Lynch in questo film riscrive e rinnova le regole del noir, ambientando in un’idilliaca cittadina, una storia intessuta di follia, violenza e passioni morbose. Il sadico gangster Frank (interpretato da un indimenticabile Dennis Hopper) tiene prigioniera una cantante di night club (impersonata da una conturbante Isabella Rossellini) per soddisfare la sua sfrenata lussuria. Il bravo ragazzo Jeffrey (Kyle MacLachlan) si ritroverà fatalmente attratto verso la cantante, al contempo vittima da salvare e ambigua dark lady, combattuto tra amore romantico (rappresentato dalla fidanzata interpretata da Laura Dern) e sesso, tra morbosità e purezza. Emblematico della visione di Lynch risulta l’inizio della storia con il ritrovamento in un prato di un orecchio mozzato, simbolo di una realtà sotterranea e malvagia che si nasconde sotto la superficie di un mondo apparentemente immacolato e puro. L’indagine dell’intraprendente Jeffrey per scoprire il mistero dell’orecchio tagliato risulterà diventare un viaggio nell’inconscio, al tempo stesso parodistico e inquietante. Fondamentali per il riconoscimento di Velluto Blu come iconico cult movie, saranno anche la colonna sonora di Angelo Badalamenti e il rilancio della storica canzone del 1963 Blue Velvet cantata da Bobby Vinton.

 

All’inquieto David Lynch, dopo i consensi raccolti da Velluto Blu, il mezzo cinematografico comincerà ad andare stretto. Infatti per ospitare il suo immaginario ‘multiforme’ e non convenzionale, Lynch comincia a guardare con interesse al mezzo televisivo e ai meccanismi della serialità che permettono di dilatare i tempi delle sue storie.
La svolta televisiva con Twin Peaks (1990-1991) ha rivoluzionato il medium, introducendo elementi surreali e onirici in prima serata e influenzando profondamente la serialità contemporanea, integrandosi anche con i meccanismi tradizionali delle soap operas. La serie ha dimostrato come la visione lynchiana potesse funzionare anche in un formato più esteso, creando un universo narrativo complesso e stratificato che ancora oggi continua a generare interpretazioni e analisi. Twin Peaks viene ripresa per una terza stagione dopo 25 anni, dove Lynch darà libero sfogo a un immaginario caotico ma affascinante che ci trasporta nel folle multiverso del regista, senza filtri o scorciatoie che possano renderlo più fruibile al grande pubblico.

Cuore selvaggio (1990, Wild at Heart), Palma d’Oro al festival di Cannes, consacra definitivamente David Lynch come autore originale e trasgressivo dotato di uno stile inconfondibile e in grado di raccogliere consensi di critica e di pubblico ancora abbastanza unanimi. Infatti Cuore selvaggio sarà il suo ultimo film dotato di una narrativa (relativamente) lineare, quindi ancora potenzialmente apprezzabile da un pubblico mainstream. Se il mondo ha un “cuore selvaggio” come dice la squinternata protagonista Lula (Laura Dern), questo film ha un’anima pulp (prima del Pulp Fiction di Tarantino), pieno di personaggi pittoreschi e sopra le righe a cominciare dall’ex carcerato Sailor, interpretato da un ispirato Nicolas Cage. Ma a differenza del pulp tarantiniano, dove la violenza non è disgiunta da una certa epicità, il pulp lynchiano assume connotati quasi caricaturali, sarcastici e grotteschi, elementi già presenti in Velluto Blu. E’ un cinema degli eccessi intriso di sesso e violenza ma stemperato da una dimensione ironica e kitsch. La crudele e dissoluta madre di Lula (interpretata da Diane Ladd, anche nella realtà madre di Laura Dern) cerca di impedire la relazione infuocata tra la figlia e Sailor, assoldando i suoi ex-amanti come killer. Ma anche in Cuore selvaggio fa capolino ogni tanto l’onirismo surreale e vagamente inquietante di Lynch: nella loro folle e sgangherata fuga, vediamo la coppia di amanti imbattersi in personaggi assurdi e in cruenti incidenti stradali (che non hanno attinenza con la trama) oppure in visioni di streghe (cattive e buone) volutamente piuttosto ridicole. Parodistico il lieto fine con Cage che canta ‘Love me tender‘ di Elvis alla sua amata in mezzo al traffico, dopo averci fatto assistere per tutto il film a un ben assortito campionario di efferatezze, erotismo morboso e dialoghi non proprio romantici.

 

Fuoco cammina con me (1992, Fire Walk with Me), presentato al Festival di Cannes, scontentò la critica e il pubblico perché Lynch sorprese tutti, alzando l’asticella della sperimentazione, andando ben oltre la serie Tv Twin Peaks di cui il film doveva essere ufficialmente il prequel che avrebbe raccontato la storia degli ultimi sette giorni di vita di Laura Palmer (Sheryl Lee). Ma come accadde per Dune, il film fu fortemente limitato nella durata e tagliato nel numero di scene previste inizialmente, dalla produzione e dai distributori. Alcune situazioni e personaggi dello show televisivo dovettero essere accantonati, con il risultato di rendere Fuoco cammina con me più astruso e cupo del previsto. Ma aldilà del nonsense sfrenato e dei personaggi deliranti messi in scena, come l’agente Phillip Jeffries (David Bowie), nelle intenzioni del regista e dello sceneggiatore Robert Engels, c’era quello di estendere e approfondire i misteri della Loggia Nera (uno degli elementi più weird di Twin Peaks) con una serie di film spin-off ma gli scarsi risultati al botteghino fecero cancellare il progetto. Con il tempo Fuoco cammina con me sarà rivalutato, anche alla luce dei numerosi riferimenti presenti nella terza stagione di Twin Peaks. Ricordiamo che il film, sfrondato dai suoi aspetti criptici e visionari (ma anche burleschi), vuole raccontare la storia drammatica di un incesto e di un omicidio commesso da un padre nei confronti di una figlia.

 

Lasciando da parte Twin Peaks che Lynch considerava uno scrigno contenitore di tutte le sue fantasie bizzarre e lo sperimentale Eraserhead, il primo film in cui il regista ha cominciato a operare la destrutturazione della narrazione lineare è stato Strade Perdute (1996, Lost Highway) che insieme ai successivi Mulholland Drive e Inland Empire possiamo considerare parte di un’ ideale trilogia ‘onirica’ che mette in discussione la natura stessa della realtà. Come accade nei sogni di tutti noi, nel cinema lynchiano i protagonisti possono cambiare aspetto e identità o tempo e luogo senza una netta demarcazione tra la veglia e il sonno e senza una qualsiasi spiegazione razionale o logica. Strade Perdute inizia come un mistery-thriller ‘normale’, teso e inquietante nei primi quaranta minuti: una coppia sposata, Fred e Renee, interpretati da Bill Pullman e Patricia Arquette, ricevono delle videocassette anonime che ritraggono l’interno della loro abitazione mentre dormonoAutore delle riprese sembra essere un uomo misterioso (Robert Blake) incontrato a un party, una sorta di regista ‘interno’ al film, munito di cinepresa, che condurrà Fred in una vertiginosa discesa nell’incubo da cui potrebbe non uscirne più. La dimensione metafilmica, come si vedrà anche nei due film successivi, prende piede esplicitamente nel cinema lynchiano a partire da Strade Perdute con l’esplorazione della natura stessa del cinema (in particolare il genere noir) e della sua rappresentazione. Strade Perdute dopo un inizio folgorante ma relativamente convenzionale, deraglia follemente perdendo ogni riferimento sicuro, tra sdoppiamenti, torbido erotismo e omicidi, per poi riavvolgersi in un loop potenzialmente infinito con il protagonista intrappolato come in un nastro di Moebius. Il tutto sulle note suggestive di I’am Deranged di David Bowie.

 

Una storia vera (1999, The Straight Story) costituisce un’ anomala ‘pausa’ nella filmografia lynchiana, ovvero una pausa dal suo cinema più disturbante e provocatorio. Colpito da un fatto realmente accaduto (la storia vera di Alvin Straight, un anziano contadino americano che nel 1994 intraprese un viaggio a bordo di un tosaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto), Lynch spiazza tutti con la realizzazione di questo road movie ‘a bassa velocità’ che ci trasporta in un’ America rurale dimenticata, dallo Iowa fino allo Wisconsin, dove vive il fratello di Alvin (Richard Farnsworth), Lyle (Harry Dean Stanton). Durante il suo viaggio Alvin incontra un’umanità solidale e generosa che lo aiuta nel suo tragitto lungo e talvolta difficoltoso. Il film ci consegna un David Lynch (parzialmente) ottimista nel dipingere una provincia americana di luminosi grandi spazi senza troppi lati oscuri ma velata di malinconia, abitata essenzialmente da brava gente che cerca di tirare avanti. Lo stesso Alvin vive modestamente con una figlia (Sissy Spacek) afflitta da un leggero ritardo mentale. Anche se il regista non rinuncia a disseminare il film di quelle stravaganze surreali che contraddistinguono il suo cinema, come l’incontro a distanza ravvicinata con una famiglia di cervi o quello con i due buffi meccanici gemelli che cercano di imbrogliare Alvin sul prezzo per riparare il tosaerba. Possiamo considerare Una storia vera una dolente riflessione sulla vecchiaia e sulla solitudine. Intensa e commovente l’interpretazione di Richard Farnsworth (nato come stuntman molto richiesto a Hollywood sin dagli anni ’30), come un ex veterano della 2° Guerra Mondiale, che vuole riconciliarsi con il fratello, affrontando i disagi di un lungo viaggio nonostante la salute malandata. Con questo film Farnsworth  è stato candidato al premio Oscar 2000 come migliore attore protagonista.

 

Mulholland Drive (2001) rappresenta forse l’apice della ricerca espressiva di David Lynch: un puzzle narrativo che sfida ogni tentativo di interpretazione lineare, trasformando Los Angeles in un labirinto onirico dove identità e realtà si frammentano e ricompongono in modi imprevedibili. Il film ha vinto il premio per la miglior regia a Cannes ed è considerato da molti critici uno dei capolavori del XXI secolo. Nato come serie televisiva della rete ABC, poi cancellata, Mulholland Drive ha tutti gli elementi del noir (due donne dark lady, – le stupende e conturbanti Betty/Naomi Watts e Rita/Laura Elena Harring – misteri, delitti, il sogno/incubo hollywoodiano…) ma in parte destrutturati, al servizio della multiforme fantasia lynchiana che risponde solo a se stessa non certo alle aspettative scontate dello spettatore. Il film pur nella sua unicità sembra richiamare La donna che visse due volte di Hitchcock ma l’approccio di Lynch al cinema trascende la semplice narrazione, tra ambientazioni inquietanti e sensazioni di smarrimento che passano dalle protagoniste allo spettatore.
Rita che soffre di amnesie in seguito a un incidente d’auto avvenuto su Mulholland Drive, trova ospitalità presso Betty, giovane aspirante attrice, arrivata a Hollywood in cerca di fortuna. Le due donne decidono di indagare sul misterioso incidente, anche per recuperare i ricordi e l’identità di Rita (che forse non si chiama Rita)…
Dall’armamentario immaginifico del cinema lynchiano ritroviamo anche la stanza rossa con il nano di Twin Peaks, il boss dietro le quinte che decide sulla produzione del film. La ricerca dell’identità di Rita e dei suoi ricordi si fa serrata seguendo ancora un tenue filo logico o razionale. Ma a un certo punto, quando Rita e Betty entrano nel Club Silencio, noi entriamo nel multiverso onirico di David Lynch e sarà difficile uscirne. Dopo che Rita/Laura Harring ha aperto la scatola con la fatidica chiave blu (entrambe presenti nella sua borsetta fin dall’inizio) parte un altro film, un’altra storia. Assistiamo al risveglio di Betty/Naomi Watts (che ora si chiama Diane) ma appare chiaro che è un’altra persona e vive in un’altra situazione evidentemente meno rosea rispetto a quella iniziale di giovane aspirante attrice piena di entusiasmo. Invece la smemorata Rita è in realtà Camille, attrice in ascesa, ex amante di Diane in procinto di fidanzarsi con il regista Adam (Justin Theroux). Tutta la vicenda precedente sembrerebbe un sogno…
Fenomenale la prestazione di Naomi Watts nella doppia parte di Betty e Diane: la prima (onirica?) perfetta, solare e altruista, la seconda (reale?) rabbiosa, frustrata e vendicativa.
Mulholland Drive possiede essenzialmente un’anima horror/weird, ma è un horror ovviamente non canonico che nasce dal sentimento di impotenza della protagonista: di non riuscire a scoprire la verità o di non riuscire a farsi strada nel mondo del cinema. O ancora, di perdere la persona amata. Stessa sensazione di impotenza che colpisce lo spettatore che non riesce ad afferrare fino in fondo il mistero insito nel film. Così come è indecifrabile il frammento narrativo iniziale, insensato come un sogno, dell’apparizione del mostro/clochard dietro il ristorante. Anche la scena altamente simbolica del Club Silencio può essere considerata un sogno dentro il sogno, un’esplorazione nelle profondità del subconscio di Betty/Diane. Lynch dissemina frammenti onirici senza remore. Ma c’è anche la satira graffiante dell’infido e corrotto mondo hollywoodiano con la storia del giovane regista rampante Adam minacciato di essere estromesso dal suo film da misteriose ingerenze esterne che vogliono imporre un’altra attrice protagonista. Appare chiaramente, anche se in maniera più sfumata nella parte onirica, che per una giovane attrice la strada per il successo è costellata di insidie e dolorosi compromessi. Del resto Lynch sembra ben conoscere il lato oscuro e ‘mafioso’ di Hollywood.
In tanti naturalmente hanno cercato di spiegare il puzzle lynchiano cercando di decifrare i suoi criptici simbolismi. In fondo si può spiegare il tutto (o quasi) come una fantasia onirica: il personaggio di Betty/Diane indaga sulla sua stessa morte per tutto il tempo, seppur sdoppiato simbolicamente in due figure diverse, versioni differenti dell’ambiguità femminile. O forse, al momento della sua morte, stava reinventando la sua vita come una versione fiabesca dell’incubo di Hollywood in cui si trovava: una comparsa che si reinventa come starlet. O forse niente di tutto questo. Inoltre ci sono tre figure inquietanti nel film che sembrano poter agire o avere influenza al di fuori della dimensione onirica: il nano, il clochard mostruoso e il cowboy pallido. Ognuno di noi può dare a questi personaggi quasi ‘soprannaturali’ il significato che vuole (il Male, il Destino, il potere di Hollywood…). Come indizio illuminante per decifrare i film di Lynch, ricordiamo il ricorrere del concetto di circolarità del tempo, dove un evento è destinato ciclicamente a ripetersi all’infinito, anche se i protagonisti rimangono ignari della cosa. Più semplicemente Mulholland Drive, come i migliori film horror, arriva alla più inquietante delle paure esistenziali: che il mondo in cui immaginiamo di vivere sia un’illusione e che non abbiamo alcun controllo sul nostro destino.

 

L’ultimo film di Lynch, Inland Empire – L’impero della mente (2006), si distacca nettamente dalle strutture e convenzioni più tradizionali andando oltre Mulholland Drive pur mantenendo vari punti di contatto tematici con esso. Il film, interamente realizzato in digitale, porta avanti all’estremo il discorso metacinematografico come si evince già dalla trama. Il film vede Nikki (Laura Dern), un’attrice che si trova intrappolata in un labirinto di identità e realtà confuse mentre interpreta un ruolo in un film che sembra riflettere la sua vita. Fin dall’inizio Lynch destabilizza immediatamente lo spettatore: figure oscure parlano in polacco in un hotel, una donna piangente guarda in TV uno spettacolo surreale con conigli antropomorfi che parlano con frasi senza senso, che a loro volta sembrano rispecchiare, a livello di incomunicabilità, il dialogo iniziale tra l’attrice Nikki e un’anziana vicina di casa.  A differenza di Mulholland Drive, dove la narrazione si sviluppa (almeno inizialmente) attraverso una trama più coesa e riconoscibile, Inland Empire abbandona la linearità per abbracciare una forma di “non-narrazione”, dove le immagini fluiscono in un continuum di sogni e pensieri. Quello che però appare evidente è che Lynch mette ancora in scena Hollywood, il cinema e le ossessioni dei suoi personaggi. Entrambi i film esplorano il confine tra realtà e finzione, ma Inland Empire porta questa esplorazione a livelli estremi. Mentre Mulholland Drive gioca con l’idea del sogno all’interno di una struttura noir, Inland Empire si immerge nel caos dell’inconscio, mescolando pulsioni freudiane con una narrazione che sembra riflettere il pensiero stesso, talvolta non lineare e sconnesso. Sullo sfondo comunque c’è un mistero oscuro, la realizzazione di un remake di un film maledetto mai realizzato, dove i due attori protagonisti vennero uccisi. Ma sarebbe vano per lo spettatore cercare di orientarsi nel labirinto mentale architettato da Lynch o cercare una soluzione al rompicapo, soluzione invece parzialmente riscontrabile in Strade Perdute o Mulholland Drive, in qualche modo ancora legati ai topoi del cinema di genere (noir, thriller, mistery…). Inland Empire non va capito con la ragione ma va ‘intuìto’ con l’istinto perché il sognatore solitario di Missoula rimescola a piacimento le sue carte: c’è un film nel film girato da un regista (Jeremy Irons), ci sono le vite reali dei protagonisti attori (una magnifica Laura Dern e Justin Theroux) che si confondono inestricabilmente con quelle recitate sul set del film, ci sono frammenti slegati e incomprensibili di altre vite e altre storie. La narrazione (se così si può definire) non rispetta le canoniche unità temporali di passato, presente e futuro superando in complessità il nastro di Moebius (segno dell’infinto), in qualche modo possibile chiave di lettura ricorsiva di Strade PerduteMulholland Drive.
Inland Empire è un lungo incubo oscuro (quasi tre ore) che non vuole piacere o rassicurare nessuno, forse un film per pochi eletti, da prendere o lasciare. Per questo, dopo Inland Empire per Lynch non sarà possibile realizzare nient’altro al cinema.

 

 

L’Eredità Artistica di David Lynch

 

La morte di Lynch segna la fine di un’era nel cinema, ma la sua eredità continuerà a influenzare generazioni di artisti. Registi contemporanei come Denis Villeneuve e Guillermo del Toro hanno riconosciuto il debito creativo nei confronti del maestro. Di Villeneuve in particolare ricordiamo lo spiazzante ed enigmatico Enemy (2013) sul tema del doppio. Un film poco conosciuto, che ha come punto di riferimento il cinema di David Lynch è senza dubbio Lieberstraum (‘sogno d’amore’, inedito in Italia) un mistery onirico dalle atmosfere morbose e inquietanti. Il film del 1991 porta la firma del regista inglese Mike Figgis (Via da Las Vegas).

 

Fondendo avanguardia e mainstream, Lynch è riuscito nell’impresa quasi impossibile di portare elementi del cinema sperimentale all’interno dell’industria hollywoodiana, creando film che funzionano sia come opere d’arte che come intrattenimento.
Con Twin Peaks ha aperto la strada alle serie TV di qualità, influenzando show come I Soprano, True Detective, Lost, The Leftovers, The OA
La sua influenza si estende oltre il cinema, permeando l’arte contemporanea, la musica e persino la pubblicità dove Lynch ha messo la sua arte inconfondibile al servizio di marchi famosi come PlayStation 2, Gucci e Barilla (con Gerard Depardieu protagonista).
Ora che il sipario è calato non ci resta che andare a rivedere tutti i film del Maestro.

Viviamo in un sogno. Spero di rivedervi, tutti quanti“.
– Dale Cooper, Twin Peaks 3 –