Si può narrare un fatto di cronaca doloroso trasformandolo in una fiaba gotica? Apparentemente i due generi sembrerebbero inconciliabili perché la vocazione del cinema d’impegno sociale è fino ad ora sempre stata improntata al verismo, mentre il fantasy ha un linguaggio diverso, può riflettere sul nostro presente ma deve necessariamente saper prenderne le distanze e stupire. La difficile sfida è stata raccolta da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che hanno portato sullo schermo un truce delitto mafioso in Sicilian Ghost Story (2017).
Giuseppe Di Matteo fu ucciso a soli quindici anni, e sciolto nell’acido l’11 gennaio del 1996. Aveva passato gli ultimi due anni in prigionia, perché suo padre era un pentito e aveva rivelato informazioni importanti sulla strage di Capaci. Questa è la triste cronaca e i registi partono dalla realtà per raccontare una storia di fantasmi, o piuttosto di presenze extracorporee e di legami indissolubili. Il risultato è ben diverso dai film-verità realizzati con pochi mezzi e attori alle prime esperienze, e si distacca anche dalle consuete opere di denuncia d’autore, che pure hanno fatto e fanno grande il cinema italiano. Sicilian Ghost Story si allontana anche dagli stereotipi dell’horror, reinterpretandone alcune soluzioni in modo originale, con uno spirito lontano dalle atmosfere britanniche di lunga tradizione. La scelta è audace quanto motivata: l’orrore vero è quello della realtà creata dai mafiosi, non la dimensione parallela nata dal più puro dei sentimenti, l’amore tra due adolescenti. La pellicola vive di motivati cambi di punti di vista, che spaziano dallo sguardo disperato di Luna, prima fidanzatina di Giuseppe in cerca di giustizia, a quello del ragazzo prigioniero, a quello di una civetta addomesticata. Tra Luna e Giuseppe si crea un contatto empatico destinato a perdurare nonostante gli eventi. E’ una dimensione da sogno che si crea scambievolmente nella mente dei due protagonisti, ed in essa i due si ritrovano e possono amarsi. Questo mondo sospeso nella nebbia appartiene ad entrambi e non crea paura nonostante ammicchi alle vecchie favole e sia perturbante. Più che nell’horror i riferimenti della pellicola vanno cercati nelle fiabe della tradizione; compaiono animali simbolici come il rottweiler\lupo che assale i due protagonisti al primo incontro nel bosco, o la civetta che tutto osserva. C’è anche il montgomery di Luna che spicca nel grigiore degli alberi, rosso come la mantellina di Cappuccetto Rosso.
Le sequenze ambientate nel mondo parallelo giocano sul lirismo più estremo. Il fatto che il ragazzo appaia nudo e in buona salute accanto al suo corpo fisico ridotto ad una larva dalle violenze dei ‘picciotti’ appare emblematico. Giuseppe sequestrato può spogliarsi del proprio corpo terreno per raggiungere l’inconscio di Luna, diventando, ancor prima dell’esecuzione, una presenza ‘non di questo mondo’. I fantasmi, quelli veri e spaventosi, sono le ombre oscure di una società ancora succube della mafia, l’omertà che attanaglia da sempre gli umili e stende la sua mano anche sul ceto medio e sulle istituzioni. Le ricerche di Luna vengono osteggiate sia dalla famiglia, sia dagli insegnanti: nessuno di loro commette reati, tuttavia i personaggi adulti preferiscono stare lontani da Giuseppe e dal suo mondo. La madre di Luna si mostra distaccata, pur non appartenendo per nascita alla provincia siciliana; il padre invece mostra comportamenti ambigui, lasciando immaginare che del rapimento sappia di più di quanto non riveli. La gioventù risente dell’ambiente: i compagni di buona famiglia a scuola sono smaliziati o ben istruiti dai genitori. Luna rimane indifesa davanti agli eventi, e solo un’amica le resta accanto, pur non comprendendo fino in fondo cosa stia accadendo, fino all’epilogo dolceamaro che non contraddice la cronaca, sebbene lasci una speranza…
La macchina da presa viene usata con virtuosismi inconsueti in modo da assecondare i passaggi tra il reale, l’onirico e il sovrannaturale vero e proprio. Ci sono inquadrature con angolazioni inconsuete, dissolvenze nella nebbia, riprese con l’uso di droni. Tutte si integrano perfettamente nella trama, grazie ad una sceneggiatura studiata quasi con rigore scientifico. La fotografia raffinata e gli effetti speciali inseriti con maestria compiono il miracolo; un’atmosfera opprimente permea gli eventi, sebbene imponga ritmi lenti e un minutaggio che potrà apparire eccessivo. Sicilian Ghost Story ha come maggiore pecca proprio l’uso e abuso di sequenze protratte per tempi eccessivi, e una recitazione altalenante. Il resto, è principalmente questione di gusto e sensibilità personale, data la delicatezza del tema trattato. La vicenda resta ad un pelo dal melodramma, sfiora il kitsch, e sempre ne resta a filo, grazie alla poesia che si contrappone alla brutalità. Merita una visione questo coraggioso film, se non altro per il coraggio di trattare argomenti impegnati con un linguaggio diverso dal consueto, senza scadere nella facile retorica e nei soliti luoghi comuni.
Il film ha ottenuto 4 candidature e vinto un premio ai Nastri d’Argento, 4 candidature e vinto un premio ai David di Donatello.
Regia: Fabio Grassadonia, Antonio Piazza
Anno: 1917
Durata: 122′
Sceneggiatura: Fabio Grassadonia Antonio Piazza (Liberamente ispirato al racconto Un cavaliere bianco di Marco Mancassola)
Fotografia: Luca Bigazzi
Interpreti: Julia Jedlikowska, Gaetano Fernandez, Corinne Musallari, Andrea Falzone, Federico Finocchiaro
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