L’attesa seconda stagione di The Man in the High Castle aveva il difficile compito di proseguire e sviluppare l’intricata e suggestiva vicenda che abbiamo avuto modo di conoscere nella prima stagione della serie targata Amazon, ispirata al romanzo di Philip K. Dick. Visto il successo ottenuto, sia di pubblico che di critica, sono aumentate le aspettative e di conseguenza anche le divergenze di vedute tra i creativi e la produzione su quale direzione far prendere alla serie, dato che gli eventi hanno ormai superato quelli narrati nel romanzo di Dick. L’unico risultato visibile di queste possibili divergenze è stato (per ora) il cambio dello showrunner Frank Spotnitz.
L’ultimo episodio della passata stagione (firmato da Spotnitz) ci aveva lasciati con un grosso colpo di scena: l’inatteso ‘viaggio’ del ministro Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa) in una realtà alternativa che sembra corrispondere al mondo che noi conosciamo, quello in cui il nazifascismo e l’imperialismo nipponico sono state sconfitti. Siamo entrati senza preavviso nella fantascienza o nel fantastico esoterico alla Lost. Quello che nel romanzo di Dick sembra un’astratta visione dell’Uomo del Castello, autore de “La Cavalletta non si alzerà più“, nella serie TV diventa una realtà concreta e tangibile (almeno in apparenza) con tutte le implicazioni del caso. Lo show televisivo ha tagliato definitivamente il cordone ombelicale con la storia dickiana e deve procedere con le sue gambe.
Diciamo subito che la seconda stagione evita il problema della (scomoda) spiegazione del viaggio di Tagomi, rimandandola probabilmente a una terza stagione, concentrandosi invece sull’evoluzione drammatica dei personaggi le cui vite sono sempre più legate agli eventi fantastorici e agli intrighi spionistici che abbiamo visto nascere nella prima serie. Chi si aspettava degli sviluppi mistery fantascientifici potrebbe rimanere deluso o perplesso dalla noncuranza con cui Tagomi accetta il suo viaggio nel ‘nostro’ mondo dove incontra addirittura una versione ‘alternativa’ della sua famiglia. Ma Tagomi è un personaggio spirituale e introspettivo e così i suoi inspiegabili spostamenti verso altre realtà ci appaiono quasi delle esperienze altrettanto spirituali di riconciliazione con i suoi familiari. Comunque non mancheranno ugualmente delle sorprese…
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Veniamo a scoprire anche che le frontiere tra la realtà da dove proviene Tagomi e la nostra non sono così impermeabili, ma vengono attraversate da altre persone.
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Fa la sua comparsa nel primo episodio Abendsen, il fantomatico Uomo dell’Alto Castello (Stephen Root), che vediamo interrogare piuttosto bruscamente Juliana Crain riguardo l’identità di un uomo in divisa nazista che appare morto su una delle pellicole. Il mistero si infittisce, anche se dobbiamo dire che l’incontro con il personaggio più atteso e misterioso della serie non è particolarmente memorabile ma è comunque lui il creatore/collezionista delle pellicole che sembrano delle finestre su altre realtà parallele e possibili futuri. Nella prima stagione abbiamo visto però che anche Hitler era in possesso di una nutrita cineteca ma adesso esce di scena rapidamente vittima di un complotto interno, lasciando nell’oscurità quest’aspetto, anche se possiamo ipotizzare che il Fuhrer, ossessionato dalle bobine, sia riuscito a vincere la guerra proprio grazie alla visione delle pellicole dove risultava sconfitto. Comunque Abendsen è in stretto contatto con la Resistenza e sembra intuire l’importanza potenziale di Juliana nell’intricata vicenda. Ma per sapere chi sia veramente costui, da quale mondo ‘parallelo’ provenga e come si sia procurato le pellicole, forse bisognerà aspettare la prossima stagione.
Eppure nonostante una certa lentezza nei primi episodi e i punti sopracitati non risolti o un po’ comodamente accantonati (se la ‘modalità’ di viaggio interdimensionale si riducesse a una specie di processo mentale di tipo Zen, sarebbe piuttosto deludente e poco convincente), la 2° stagione di The Man in the High Castle si fa vedere con grande interesse e nel complesso non delude le aspettative: quasi tutti i personaggi (anche quelli secondari) acquisiscono una complessità psicologica, uno spessore drammatico e un ruolo attivo nella vicenda dando finalmente all’azione un andamento più incalzante. Juliana Crain (Alexa Davalos), che abbiamo sempre visto sballottata dagli eventi e priva di un ruolo forte, spesso in fuga e costretta a cambiare ‘bandiera’ più volte per salvare la pelle, dovrà alla fine fare delle scelte morali che contribuiranno a salvare il ‘suo’ mondo dalla devastazione atomica, seguendo il suo ‘cuore’ e non quello che vogliono imporle gli spietati contendenti costituiti dagli occupanti nazisti e dalla Resistenza. E persino la sua conoscenza dell’aikido la aiuterà a sfuggire a un tentativo di omicidio, ritagliandosi qualche (improbabile) scena d’azione.
Anche Frank Frink (Rupert Evans) l’ex marito di Juliana, finora personaggio debole e inconcludente ai fini dell’evoluzione della storia nella prima stagione, trova un suo ruolo importante entrando attivamente nella Resistenza contro i giapponesi, spinto dalla sete di vendetta. Prende piede anche la strana coppia formata dall’antiquario Childan (Brennan Brown) e lo sprovveduto Ed McCarthy (DJ Qualls) alle prese con la yakuza e i piani dell’astuto ispettore capo Kido.
Il personaggio di Joe Blake (Luke Keintank) invece sembra subire un’involuzione, infatti si dimostrerà irresoluto e passivo di fronte alle nuove scoperte che lo riguardano. Però tramite le sue peripezie e i suoi spostamenti veniamo a conoscenza delle sue origini geneticamente ‘ariane’ e dell’identità del suo vero padre, Martin Heusmann (Sebastian Roche) potente ministro del Reich e nuovo villain della serie, insieme al crudele generale nipponico Onada (Tzi Ma). E soprattutto la nostra visione del mondo ucronico creato da Dick si amplia alla Germania nazista centro del Reich, efficacemente ricostruita in questa seconda stagione, anche sotto l’aspetto scenografico. Particolarmente riuscita e curiosa è la rappresentazione dell’evoluzione della società nazista a cominciare dai viziati rampolli della gioventù hitleriana che si dedicano al consumo di droghe e alcool, unitamente all’adesione a vaghi ideali ecologisti e protestatari, un po’ come succedeva ai loro coetanei negli anni ’60 del nostro mondo ‘libero’. Invece, meno simpaticamente, il sopracitato Heusmann rappresenta l’evoluzione e perfezionamento dell’ideologia hitleriana in fatto di purezza della razza e sterminio dei ‘diversi’, nonostante i modi affabili e misurati.
Ma la cosa più riuscita di questa seconda stagione è il singolare e ambiguo rovesciamento di ruoli tra buoni e cattivi che fanno risultare quest’ultimi quasi più ‘simpatici’ (se così si può dire) agli occhi dello spettatore. O meglio, alcuni cattivi si troveranno in qualche modo loro malgrado a essere determinanti per salvare il mondo dall’olocausto atomico. Una scelta, da parte degli sceneggiatori, sicuramente non banale e coraggiosa.
Su tutti primeggia l’Obergruppenfuhrer John Smith (splendidamente impersonato da Rufus Sewell), che vediamo (in un flashback) in divisa americana assistere alla distruzione atomica di Washington durante la guerra. Quindi Smith è una figura ambigua che ha cambiato bandiera anche per convenienza e che si trova in una posizione di prestigio e potere, con una famiglia che sembra la perfetta immagine della famiglia ‘felice’ nazista, a cominciare dalla moglie Helen, riuscito personaggio da propaganda in stile ‘Goebbels’. Ma la malattia incurabile del figlio Thomas (da tenere assolutamente segreta in un regime che elimina i non adatti), i complotti per portare alla guida del Reich un personaggio in un certo senso ancor più spietato di Hitler, la minaccia di rappresaglie naziste sul territorio americano in risposta alle rivolte e il folle piano di attaccare con ordigni nucleari i territori della costa del Pacifico (oltre a Tokio) occupati dai giapponesi, incrineranno la fede nazista di Smith e lo costringeranno a rivedere le sue priorità. Anche l’impassibile ispettore capo Kido (Joel De La Fuente) avrà dei ripensamenti al riguardo e si troverà suo malgrado a collaborare con Smith per salvare milioni di vite (con l’aiuto di Tagomi e Juliana). Invece i membri della Resistenza, nonostante il loro indubbio coraggio e dedizione a una giusta causa, si dimostrano in certe circostanze fanatici e ottusi e non esitano a cercare di uccidere Juliana nonostante lei avesse accettato di infiltrarsi nella famiglia di Smith e nell’alta società nazista per carpire preziose informazioni da usare contro l’Obergruppenfuhrer.
Finalmente anche le sfuggenti pellicole smettono di essere dei semplici pretesti narrativi per far muovere i personaggi, e diventano fondamentali per capire e risolvere alcuni pezzi del rompicapo. E il finale ci riserverà un incontro inatteso per Juliana.
Quindi c’è ancora molto da raccontare e da scoprire e le vicende dei protagonisti ci terranno incollati allo schermo anche per una terza stagione già in lavorazione.
In conclusione con la seconda stagione, The Man in the High Castle entra nel pieno dell’azione, lasciando inevitabilmente la staticità e l’introspezione psicologica del romanzo di Dick, pur suscitando in noi una sensazione di disagio che nasce dall’idea che il mondo rappresentato in questa serie TV avrebbe potuto essere il ‘nostro’ mondo in altre circostanze.
Vedi anche: The Man in the High Castle – Stagione 3 (recensione)
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