Stefano, un giovane scrittore bolognese in cerca di ispirazione, riceve in regalo dalla moglie una macchina da scrivere. Ma sul nastro del vecchio apparecchio, Stefano scopre incise delle scritte enigmatiche riguardo strani esperimenti condotti su dei misteriosi terreni chiamati “terreni K”. Incuriosito e in cerca di una storia per i suoi libri, lo scrittore decide di scoprire a chi era appartenuta in precedenza la macchina da scrivere. Le sue ricerche sempre più ossessive lo porteranno sulle tracce di un prete spretato e a scoprire le teorie, elaborate agli inizi del XX secolo da un certo Paolo Zeder, riguardo le proprietà miracolose di certi particolari terreni che consentirebbero ai morti in essi seppelliti di tornare in vita…
Un anno prima che il re dell’horror letterario Stephen King desse alle stampe Pet Sematary (che condivide con Zeder il fulcro tematico), il regista Pupi Avati (insieme al fratello Antonio e a Maurizio Costanzo prima dei talkshow nazional-popolari) concepiscono il sorprendente Zeder (1983), originale storia di zombi distante anni luce da quelle americane di stampo romeriano. Avati, al suo secondo horror padano dopo La casa dalle finestre che ridono (1976), gira con maestria una pellicola affascinante ed enigmatica dove predomina (cosa relativamente rara nel panorama horror italico) la paura dell’ignoto di lovecraftiana memoria, senza particolari effettacci splatter o gratuiti colpi di scena. La ricerca sempre più ossessiva del protagonista per scoprire il mistero dei fantomatici terreni k (che in effetti hanno qualcosa di kafkiano) porta lo spettatore più ricettivo ad immergersi (insieme allo sventurato scrittore) in una realtà quotidiana inizialmente tranquilla e quasi banale che inesorabilmente si sgretola di fronte ad una spirale di accadimenti incomprensibili e innaturali che celano un’ intricata ragnatela fatta di oscure congiure, omicidi efferati ed esperimenti proibiti. Fondamentali, come in tutti i film di Avati, sono le location che contribuiscono a creare quelle atmosfere sospese e inquietanti, marchio di fabbrica del regista bolognese sin dai tempi di Balsamus, l’uomo di Satana (1968) suo primo film dai toni grotteschi e surreali. L’ineluttabile senso di isolamento in cui si viene a trovare il protagonista è accentuato dall’apparentemente solare ambientazione romagnola, collocata tra Bologna a Milano Marittima che appaiono nel film desolate e misteriose come non mai. Di notevole impatto scenografico è la Colonia Varese a Milano Marittima, gigantesco caseggiato in cemento abbandonato in mezzo ad un parco, progettata nel 1937 per ospitare la Federazione dei Fasci della provincia di Varese. L’enorme costruzione abbandonata è lo scenario ideale per ospitare i soprannaturali ‘terreni k’ e quando assistiamo al ghigno sdentato del prete resuscitato ci troviamo di fronte ad un grande momento di horror perturbante da antologia. Una risata ebete e maligna al tempo stesso che non si fa dimenticare facilmente. Altra location suggestiva dove si reca Stefano mentre indaga sui terreni k è la necropoli etrusca di Spina dove si sospettava (nel film) che si praticasse un particolare culto per resuscitare i defunti; la necropoli (vera) è situata a Marzabotto a sud di Bologna.
Indubbiamente Zeder è un film piuttosto criptico (a cominciare dall’oscuro antefatto ambientato in Francia ma in realtà girato a Bologna in una villa oggi abbandonata) anche per via di una sceneggiatura e di un montaggio un po’ farraginosi ma il suo fascino anche visivo non ne rimane sminuito: come in certe pellicole di David Lynch, il labile confine tra reale e irreale e la fascinazione dell’ignoto che colpisce il protagonista vanno al di là di qualsiasi trama lineare e compiuta; anche il terribile finale non è conclusivo e non fa troppa luce sulla oscura vicenda di cui abbiamo colto solo dei frammenti attraverso l’indagine del giovane scrittore. Frammenti che ci fanno intravedere un oscuro complotto che sembra coinvolgere figure insospettabili interessate a impossessarsi e a controllare in gran segreto i portentosi terreni che sembrano sovvertire le leggi di natura, come in certi classici horror-thriller a cominciare da Rosemary’s Baby (1968).
Un altro punto di forza di questo suggestivo horror sono gli interpreti: un giovane Gabriele Lavia qui al suo meglio, nella parte dell’ossessionato ed antipatico Stefano, la bella Anne Canovas nella parte di sua moglie che si farà trascinare suo malgrado nella pericolosa indagine, più un discreto stuolo di rustici comprimari dalle fattezze grottesche come lo sfuggente prete spretato Don Luigi Costa (Carlo Schincaglia) o il nano Mr. Big (Bob Tonelli). Purtroppo Pupi Avati in seguito ha parzialmente abbandonato la strada dell’horror fantastico in favore di una commedia più rassicurante dal sapore nostalgico dagli echi felliniani. Diversamente avrebbe sicuramente conteso a Dario Argento lo scettro di re dell’horror italiano.
Regia: Pupi Avati
Anno: 1983
Produzione: Italia – Gaumont – Durata: 95 min.
Sceneggiatura: Pupi Avati, Maurizio Costanzo, Antonio Avati
Fotografia: Franco Delli Colli
Musica: Riz Ortolani
Scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpae
Interpreti: Gabriele Lavia, Cesare Barbetti, Anne Canovas, Marcello Tusco, Bob Tonelli, Carlo Schincaglia
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